Giugno 1944, e Roma ricominciò la sua libertà
mercoledì 7 giugno 2017

Roma: 4 giugno 1944: domenica. Uno dei ricordi più antichi. Prima di esso c’è quello dei tedeschi in casa, in cerca di armi dopo l’8 settembre, quando fummo salvati – tutti – dalla disobbedienza di mia madre, che aveva consegnato il moschetto e due bombe a mano portate in casa da mio padre ai pompieri... Attorno a mezzogiorno ero a viale Angelico, tenuto per mano da mio padre in quella domenica di sole in cui gli americani liberarono Roma attraversandola tutta, venendo dalla Casilina e dall’Appia verso la Cassia e quindi Ponte Milvio con i loro camion, camionette, moto, sidecar e carri armati diretti al Nord.

Finalmente la liberazione e la pace. Quella mattina eravamo stati svegliati da tante grida dei vicini. A proposito di “grida”, in famiglia si ricorda il nonno Ubaldo con due baffoni enormi, che a casa dei miei zii preferiti, i Fabbretti, Elena e Armando, che in realtà non erano proprio zii, il 25 aprile dell’anno successivo avrebbe salutato gli eventi gridando dal terrazzo con voce tonante: «Roma, ti sei addormentata schiava, e ti risvegli libera!». Dunque in quel 4 giugno di 73 anni fa arrivarono “gli americani”!

Con papà noi andammo a viale Angelico: loro passavano in lunga fila sui loro mezzi militari lanciavano caramelle e cioccolata, sigarette e tanto altro, ridevano e scherzavano con la gente... Tutti applaudivano. Una festa, con qualche intermezzo singolare. L’allegria della folla era comprensibile. Nessuno pensava più che fino a qualche giorno prima tutto pareva diverso. A Roma non risulta e nessuno mi ha raccontato qualcosa di simile – a parte un triste episodio di “linciaggio popolare”, che fece come vittima, forse innocente, il direttore del Carcere di Regina Coeli – che ci siano state diffuse vendette sugli sconfitti... Ricordo l’allegria di quella mattina, dunque, con un particolare che ancora mi fa sorridere. Accanto a noi un distinto signore assisteva in prima fila al passaggio di camion e carri armati. Aveva un bellissimo vestito blu e un bel cappello in testa.

A un certo punto da un carro armato vicinissimo si sporge un soldato di pelle nera, grande e grosso come un gigante, si toglie l’elmetto dalla testa, prende al volo il cappello del signore, gli mette in testa l’elmetto con la retina militare sopra, e si mette in testa l’altro cappello... Il distinto signore vestito di blu e con l’elmetto in testa rincorreva, gridando e gesticolando invano, il carro armato sul quale troneggiava il soldatone in divisa, impettito come un re col cappello sul capo e divertito come un bambino... Quel signore restò lì, sconsolato e con l’elmetto in testa, tra la gente festante che lo applaudiva cordiale e incoraggiante. La domenica dopo, 11 giugno, papà ci portò tutti insieme a far festa a piazza San Pietro. I romani ringraziavano Pio XII che aveva difeso la città salvandola dai bombardamenti: defensor civitatis, si disse subito. Tante bandiere non solo tricolori, anche rosse. Tanti fazzoletti al collo, anche rossi. E tanta, tanta gente. C’era anche, mi hanno raccontato, e restò famoso, un prete con la bandiera rossa anche lui.

Mi pare si chiamasse don Pegoraro. E anche molti ebrei, con la kippàh. Come scrissero le cronache di allora, e che troppi hanno dimenticato. Diciotto anni dopo venne fuori l’indecente opera teatrale, “Il Vicario”, che iniziò l’impresa, mai finita, di calunnia verso Pio XII e la Chiesa come dimentichi della tragedia degli ebrei. Eppure chi c’era ricorda, a parte parole e documenti di Pio XII contro l’ideologia nazista, quante parrocchie e quanti istituti religiosi di Roma furono per anni pieni di rifugiati ebrei e partigiani, magari vestiti da preti. Evidentemente c’era una direttiva del vescovo di Roma, che era appunto Pio XII... Nella parrocchia di Santa Lucia, frequentata da noi figli, il parroco don Ettore Cunial, nonostante ripetute minacce di fascisti e tedeschi ospitò a lungo ebrei e ricercati, tra cui il futuro presidente Siae Bruno Grazia-Resi e il futuro deputato comunista Mario Alicata.

E al Laterano monsignor Ronca, rettore del Seminario, aprì le porte per molto tempo ai rifugiati, tra i quali uno si chiamava Pietro Nenni, fumava come un turco, qualche volta “sacramentava” e girava in tonaca. Fuori lo cercavano fascisti e tedeschi: dentro fu al sicuro. Nella vita successiva fu anche anticlericale, forse visti i tempi e i fatti reali, soprattutto della politica, con qualche ragione, ma per concludere ricordo che quando morì la sua sposa Paolo VI volle personalmente fargli giungere le sue condoglianze, e l’allora monsignor Capovilla le comunicò all’anziano leader socialista, che ne fu commosso. Dunque giugno 1944 e Roma libera: lo è da allora.

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