mercoledì 18 gennaio 2017
Quando si parla dei giovani – soprattutto da parte di noi adulti – osservo due tendenze opposte, talvolta supportate da indagini prese un po’ troppo alla lettera.
COMMENTA E CONDIVIDI

Quando si parla dei giovani – soprattutto da parte di noi adulti – osservo due tendenze opposte, talvolta supportate da indagini prese un po’ troppo alla lettera. La prima è parlare di giovani massificati, evidenziandone soprattutto fragilità e carenze e assumendo toni eccessivi di critica, fino a scadere nel pregiudizio. I giovani, quasi identificandosi con il nostro sguardo su di loro, finiscono per percepirsi come destinatari di una condanna moralistica, senza appello: 'non siete come dovreste essere, cosa possiamo aspettarci da voi, figli del consumo, gemelli di Peter Pan?'. Come se non fossero nostri figli... La seconda tendenza, ugualmente esagerata ma altrettanto presente tra gli adulti dentro e fuori la comunità ecclesiale, è quella opposta: i giovani vengono spesso esaltati con atteggiamenti di giustificazione a oltranza, quando non di malcelata complicità, salvo poi entrare in competizione con loro per una segreta invidia.

Entrambe questi eccessi favoriscono però la deresponsabilizzazione dei giovani e il loro abbandono: perché si sentono comunque 'sbagliati', prigionieri di una disistima e un pessimismo di cui sono i primi artefici; oppure perché li si blandisce accudendoli compiaciuti, come fossero eterni bambini da proteggere rispetto a qualunque tempesta della vita, e da accontentare finanche nei capricci. Se è davvero questo l’humus in cui è radicata la loro quotidiana solitudine, allora sarà assai difficile che possano percepire la vita come 'vocazione', chiamata cui rispondere generosamente, donandosi per amore. La visione della vita oscillerà tra il vuoto insensato di passioni tristi e il continuo vagabondaggio in cerca di soddisfazioni immediate che producono quella che papa Francesco ha definito alla Gmg di Cracovia «felicità-divano».

In questo scenario scelte e decisioni sono eterne finché durano, mentre si aspetta per afferrarlo magicamente al volo l’attimo fuggente da mordere con voracità, ingordi e ingrati, ritrovandosi poi con la partita della vita che scivola addosso senza avere neppure iniziato a giocarla perché rimasti sempre in panchina. Dove tutto è liquido, e il precariato è l’unico elemento stabile, qualunque 'per sempre' fa paura. E allora meglio adagiarsi sul 'qui e ora'. Spero tanto che il Sinodo 2018 e il confronto già avviato spingano a fare qualcosa per restituire a ciascun giovane, così com’è, il diritto di essere considerato nella sua originalità.

Perché i ragazzi possano rispondere con generosità alla propria vocazione urgono adulti di riferimento che li prendano sul serio, superando pregiudizi e resistenze, affiancando ciascuno affinché si senta qualcuno degno di ogni rispetto, di considerazione, di stima. Perché considerino la possibilità di mettersi in gioco per un oltre, per un Altro e per gli altri, è necessario che i giovani posti dalla vita sul nostro cammino di adulti e di educatori siano accompagnati con discrezione ma anche con la serena fermezza di chi li spinge a lasciare la tana dove si sono rifugiati, per restituire loro l’ebbrezza di sentirsi 'chiamati' per nome, con il proprio volto e le proprie ferite, uscendo allo scoperto e recuperando la capacità di sognare, osare, sperare, progettare, amare.

«Chi ama, chiama», ha detto qualcuno in modo intrigante e molto vero. E chi si sente amato sarà provocato a rispondere. Non si avranno risposte generose se non ci saranno 'chi-amate' generose da adulti che amano e chiamano, alla maniera di Dio. Il Papa, con la freschezza giovanile dei suoi 80 anni, è quello che meglio comprende di chi e di cosa hanno bisogno i giovani: gli vuole molto bene, glielo fa sentire, e li sfida con 'lo schiaffo di sant’Ignazio e la carezza di san Francesco' affinché trovino in se stessi e in Cristo il coraggio di rischiare. Il nostro impegno, allora, sarà di affiancare i giovani con l’autorevolezza di chi testimonia che «la vita è un dono che si deve accettare, condividere, poi restituire » (Renato Zero), e che «la chiamata di Cristo è per i forti e per i ribelli alla mediocrità» (Paolo VI).

Se riscoprono e accettano questo, non avranno difficoltà a considerare il matrimonio come una bellissima vocazione, e sapranno prendere in seria considerazione anche la possibilità di farsi preti, di entrare nella solitudine provocante e fascinosa di una clausura, di spendersi per amore nelle strade polverose delle periferie dell’ospedale da campo e della barca di Pietro. Qualunque scelta, motivata dal Cristo del rischio e della promessa, sarà intravista come un’opportunità di fare della propria vita un capolavoro (san Giovanni Paolo II).

*padre spirituale del Seminario maggiore «Alessio Ascalesi», Napoli

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: