venerdì 26 agosto 2011
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È finita presto e bene, due avverbi che non erano mai comparsi nelle cronache della confusa guerra libica. La speranza l’ha avuta vinta sulla paura. L’angoscia per il sequestro del nostro collega Claudio Monici e degli altri tre giornalisti italiani, presi in ostaggio due giorni fa da una banda di miliziani fedeli al raìs, si è sciolta in un grande respiro di sollievo ieri mattina quando abbiamo avuto conferma della loro liberazione.Che i giornalisti diventino loro stessi oggetto di notizia non è un buon segno. Se questo avviene non è solitamente per smania di protagonismo ma per il fatto che, loro malgrado, finiscono nel mirino di chi li ritiene una presenza ingombrante e fastidiosa, oltretutto facile da colpire. L’inviato che decide d’affrontare viaggi estenuanti e difficoltà d’ogni tipo non lo fa per una sciocca vanagloria da esibire al ritorno, ma per vedere, raccontare e (se ci riesce) spiegare quel che succede sul campo, andando oltre le notizie anonime e frammentarie raccolte su Internet e mettendoci la sua faccia, la sua firma, la sua intelligenza e la sua passione per la vicenda umana. Non va incontro al pericolo con la baldanzosa sicumera di chi ama il rischio e sfida la sorte. Tutt’altro, si prende tutte le precauzioni possibili, timoroso che gli capiti il peggio. «Siamo vivi per grazia di Dio», è il drammatico racconto del nostro collega sfuggito al linciaggio dopo che sotto i suoi occhi si era consumato il barbaro omicidio a sangue freddo dell’autista-interprete. Quella del miracolo non è una categoria abituale per chi fa il nostro mestiere. Ma Claudio Monici l’ha usata coscientemente, senza cedere all’emotività, nel suo straordinario reportage che potete leggere a pagina 3.«La liberazione dei quattro giornalisti è un buon auspicio per il futuro della Libia», ha detto ieri Silvio Berlusconi incontrando il primo ministro del Comitato nazionale transitorio della Libia, Mahmud Jibril. Vorremmo proprio che fosse così. Ma tanti, troppi calcoli si sono rivelati sbagliati in questo drôle de guerre che si è rivelato essere il conflitto libico. La caduta di Gheddafi, data per imminente più volte da quando, il 19 marzo, sono iniziati i bombardamenti della Nato, è già stata celebrata sulle piazze di Tripoli ma non è ancora avvenuta pienamente e la festa per il crollo del regime si è subito capovolta negli scontri furibondi tra gli insorti e gli sgherri del dittatore, che anche ieri ha ribadito di non volersi arrendere. A questo punto la caccia al raìs diventa fondamentale. Non sappiamo se si trovi accerchiato e senza più vie di scampo, come in queste ore affermano i ribelli. Sappiamo però che ogni giorno che si frappone alla sua cattura (o alla sua fuga) è destinato a segnare un crescendo di orrori e di nefandezze in un Paese che sprofonda nell’anarchia e nella miseria. Non si devono sottovalutare i colpi di coda del «cane arrabbiato», come un tempo veniva chiamato Gheddafi. La fine dei regimi totalitari non è un copione già scritto e valido in tutte le situazioni. Il paragone con l’Iraq del dopo-Saddam non aiuta molto: qui non ci sono eserciti d’occupazione straniera ma un’accozzaglia di ribelli che dopo una lenta e faticosa avanzata su Tripoli non riesce a consolidare la vittoria sbandierata frettolosamente qualche giorno fa. C’è chi pensa già da subito a una conferenza di pace. Ma prima bisognerà finire la guerra per davvero.
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