Gene editing, ora una moratoria
venerdì 22 marzo 2019

Non un trattato, ma un impegno volontario dei singoli Stati per una moratoria mondiale di cinque anni sul trasferimento in utero di embrioni geneticamente modificati con la ormai celeberrima tecnica dell’editing genetico. Non un bando permanente, ma un lungo e concordato periodo di riflessione internazionale, comprendente anche il tempo necessario per ulteriori riflessioni pubbliche internazionali prima che ogni Stato, liberamente, decida se e come procedere per consentire gravidanze con embrioni geneticamente modificati.

Lo hanno chiesto 18 studiosi in un lungo, articolato ed interessante appello pubblicato dalla rivista scientifica 'Nature'. Sottoscritto anche da Luigi Naldini, unica firma italiana, direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica, il testo ripropone una parola che sembrava dimenticata: moratoria. Era stata usata per la prima volta, sempre in riferimento al gene editing, nel marzo 2015, quando in due diverse lettere pubblicate a distanza di una settimana, su 'Nature' prima e su 'Science' poi, esperti di settore la chiedevano per la stessa applicazione: la modifica genetica di embrioni umani per avviare una gravidanza (includendo anche i gameti destinati alla fecondazione in vitro).

Nei tre anni successivi, però, di moratoria non si è parlato più: i molti documenti elaborati in proposito da centri di ricerca e tavoli di esperti in varie parti del mondo sono stati orientati piuttosto nel formulare criteri che dicessero non 'se' ma 'quando' trasferire embrioni editati in utero. O meglio dovremmo dire auspici, più che criteri: le proposte hanno sempre presentato un certo grado di ambiguità, e soprattutto non sono mai state in grado di specificare nel concreto la soglia di rischio accettabile per poter dare il via libera alla prima 'gravidanza editata'.

Decisivo per promuovere questo appello, e soprattutto per riesumare la vecchia idea di moratoria, anche se temporanea, è stato lo choc provocato dalla nascita delle gemelline cinesi geneticamente modificate, in Cina, che hanno infranto il tabù e hanno mostrato quanto fosse stato facile farlo: He Jiankui, il responsabile cinese dell’esperimento, non aveva fatto mistero dei suoi tentativi, di cui aveva tenuto informati persino noti studiosi statunitensi, alcuni dei quali sono attualmente oggetto di indagini interne dei rispettivi atenei di appartenenza per la loro silenziosa complicità.

Questa sospensione sul gene editing, specificano i 18 esperti, non coinvolge la manipolazione in vitro degli embrioni umani, ma riguarda solo il loro trasferimento in utero, che allo stato attuale delle conoscenze presenta ancora rischi inaccettabili per gli eventuali nascituri. L’appello è interessante per molti aspetti. Non solo per la frenata – tardiva, ma almeno concreta, stavolta –– a esperimenti inaccettabili, ma per il fatto di mettere al centro della discussione il problema della governance delle biotecnologie più promettenti: si parla di decisioni che debbono assumere i governi nazionali, e la vecchia idea della capacità di autogoverno della comunità scientifica è definitivamente in soffitta.

Più volte si ripete la necessità di un ampio consenso delle comunità prima di procedere con gli esperimenti più controversi, e si specifica che il consenso «non significa unanimità o semplice maggioranza», ma chiede il giudizio dei governi, che si debbono confrontare con le opinioni dei cittadini: il gene editing di gameti ed embrioni a scopo riproduttivo, insomma, dovrebbe essere trattato al pari di altre tematiche sociali complesse. Consentire la nascita di bambini geneticamente modificati fa parte delle grandi questioni di interesse collettivo, che non possono essere confinate nelle ristrette cerchie degli addetti ai lavori, ma che debbono necessariamente far parte della discussione nella società, allo stesso modo di altre importanti questioni di cui tradizionalmente si occupano governi e parlamenti.

Una prospettiva interessante, nella quale vanno anche ripensate nuove forme di dibattito pubblico, considerando anche potenzialità e criticità della rete. Potremmo sintetizzare dicendo che con questo appello la questione antropologica è diventata questione sociale: sono proprio gli addetti ai lavori a dirci che i cambiamenti radicali dell’umano non possono più riguardare solo loro, ma coinvolgono necessariamente tutti noi.

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