Gabriele e il sindaco
mercoledì 20 dicembre 2017

Ogni sera è il primo a entrare in chiesa e l’ultimo ad andare via. Si chiama Gabriele e viene dalla Romania. Non sa esprimersi nella nostra lingua e noi non conosciamo la sua. Anche l’età rimane avvolta nel mistero. Cammina zoppicando, appoggiandosi a un bastone, la barba incolta, gli occhi verdi, gli abiti trasandati. Chiede la carità senza pretendere, senza inveire; tende la mano con rispetto, discrezione. Siamo diventati amici, così, senza parlare, ricorrendo all’antico linguaggio dei gesti e del sorriso. Beve. Purtroppo, come tanti fratelli senzatetto, Gabriele beve. L’altra sera, stanco di offrirgli solamente abiti già usati, gli ho regalato un paio di scarpe nuove. Le ha calzate incredulo, con l’espressione di un bambino al quale la befana ha portato il giocattolo richiesto. Poi ha preso a camminare avanti e indietro per la navata centrale facendomi capire che le scarpe gli andavano proprio bene. Dopo diversi tentativi a vuoto per dirmi la sua gratitudine, stanco di cercare una parola che proprio non trovava, con gli occhi spalancati, mi ha mandato un bacio con la mano.

Questo mese di dicembre ci sta portando giornate grigie, fredde, piovose. A me piacciono: mi aiutano a riflettere, a studiare, a pregare. O, forse, mi piacevano fino a quando Gabriele, discreto, è entrato nella nostra vita. Da allora preferisco che la pioggia se ne stia rintanata tra le nubi, che il vento la smetta di sbuffare, che il tempo sia sereno. La casa di cartone di Gabriele, in mezzo alla campagna, quando piove si inzuppa, non regge, lasciandolo solo, bagnato, infreddolito. E lui il giorno dopo, deve cercare stracci e scatoloni per costruirne un’altra. A me piace essere svegliato dai tuoni in piena notte. O, meglio, mi piaceva. Adesso non più. Acqua, freddo, tuoni, lampi non vogliono bene a Gabriele, gli mettono paura, gli fanno male, gli sono nemici. A lui e alla grande schiera dei nostri fratelli e sorelle senzatetto.

Sabato sera, prima della Messa. In chiesa siamo solo noi due: Gabriele con la schiena appoggiata alla porta d’ingresso, io sull’altare a sistemare il messale. Soli, il prete e il mendicante. E nel tabernacolo Gesù vivo e vero che impazzisce di amore per entrambi. Come tante altre volte mi ritrovo a farfugliare: «Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta». Prepotente allora mi ritorna in mente la parabola del fariseo e del pubblicano. Il primo, ipocrita e impettito, che, credendo di pregare, non fa che vantarsi dei suoi "meriti" e l’altro che, umile e pentito, confessa i suoi peccati.

Lui, disse Gesù, fu giustificato, mentre il tronfio fariseo no. Gabriele non vuole andare al dormitorio, è vero; forse è anche responsabile dello stato in cui versa, non lo so. Beve molto e mangia poco, è altrettanto vero. Volendo potremmo trovare altri cento difetti che hanno fatto di lui un uomo solo, senza amici e senza casa. Eppure rimane un uomo nel quale Dio ama prendere dimora. E questa notte Gabriele e il suo Ospite divino hanno freddo. E come lui altri mille "Gabriele", abitati dalla medesima Presenza viva, tremano, soffrono, muoiono.

Un pensiero per loro, sempre ma soprattutto in questi giorni di Natale. Un pensiero intriso di preghiera, di simpatia, di condivisione, di bontà. La monetina che lasciamo cadere nelle loro mani sporche, il pasto offerto o anche solo il bicchiere di latte caldo, la coperta per la notte che procuriamo fanno più bene a noi che a loro. Crediamolo. Questi fratelli, rimasti indietro nella pazza corsa della vita, ci aiutano a rimanere umili, grati, riconoscenti. A Dio, innanzitutto. Poi a chi ci vuole bene. Ma anche ai concittadini che ci hanno eletti e che dobbiamo guidare, se abbiamo una qualche responsabilità pubblica in una qualche parte del Paese. Per esempio se siamo il sindaco di una città in riva a un lago bellissimo come quello di Como... Gabriele e i suoi fratelli e sorelle senzatetto, se mai dovessimo averlo dimenticato, ci ricordano che tutto è dono, di tutto dobbiamo rendere grazie, tutto abbiamo l’obbligo e la gioia di condividere con i più poveri. E che se non sappiamo condividere dovremmo almeno resistere all’incredibile tentazione di impedire ad altri di farlo.

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