martedì 26 luglio 2022
Per sostenere lo sviluppo servono investimenti pubblici per almeno lo 0,7% del Pil, 4mila professori ordinari in più e la stabilizzazione dei ricercatori oggi a tempo determinato
La ricerca italiana ha bisogno di più fondi

La ricerca italiana ha bisogno di più fondi - Ansa

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Dare «certezza, stabilità e continuità dei finanziamenti» della spesa pubblica in Italia per ricerca e sviluppo, guardando anche oltre i fondi in arrivo con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che andranno ad esaurirsi nel 2026. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che la spesa pubblica in R&S si assesti intorno allo 0,7% del Pil, arrivando a 15,7 miliardi nel 2027, tre in più rispetto ai 12,7 miliardi stanziati quest’anno.

In estrema sintesi, è questa la proposta contenuta nel documento finale del Tavolo tecnico coordinato dal direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, Luigi Ambrosio, istituito dalla ministra dell’Università e della ricerca, Maria Cristina Messa. «Uno strumento puntuale e concreto che spero possa essere da guida già nella definizione della prossima legge di Bilancio», auspica la ministra, che si è avvalsa della collaborazione, tra gli altri, del premio Nobel 2021 per la Fisica, Giorgio Parisi, presidente della Classe di Scienze dell’Accademia dei Lincei. Un lavoro di analisi e di proposta da cui anche il nuovo governo che emergerà dalle elezioni non potrà prescindere.

La necessità di dare stabilità e continuità ai finanziamenti pubblici in Ricerca e sviluppo, attraverso una vera e propria Strategia italiana in materia di ricerca fondamentale, è dettata soprattutto dal fatto, si legge nella relazione degli esperti, di «evitare che gli sforzi fatti fin qui dal Mur e dal Pnrr siano in larga parte vanificati», con il ritorno «ai pregressi, inadeguati, livelli di spesa». A questo riguardo, dicono molto del divario tra l’Italia e gli altri Paesi europei, gli ultimi dati Eurostat: nel 2020 l’Italia ha investito nella ricerca pubblica 185 euro per abitante, contro i 235 della Francia e i 447 della Germania. E ciononostante, i ricercatori italiani continuano a primeggiare in Europa. Soltanto a titolo di esempio, basterebbe ricordare che, nel 2020, gli italiani hanno vinto 47 progetti Erc (European Research Council), mentre i tedeschi se ne sono aggiudicati 45, i francesi 27, gli spagnoli e gli olandesi 21 e gli irlandesi 20. Se, però, si guarda la classifica dei Paesi che ospitano i progetti, cioè che offrono materialmente ai ricercatori mezzi, risorse e strumenti per lavorare, l’Italia è soltanto ottava, con 17 istituzioni coinvolte. «Un chiaro segno – scrivono gli esperti del Ministero – della capacità dei nostri ricercatori, ben formati in Italia ma che, in mancanza di opportunità di ricerca nel nostro Paese, hanno deciso di continuare la loro carriera all’estero. Un potenziale umano, questo, che andrebbe recuperato come patrimonio del Paese».


Va invertito il trend che ha visto,
negli ultimi 10-15 anni,
il taglio del personale degli Atenei,
ridursi i finanziamenti pubblici
e 'fuggire' all’estero
14mila giovani ricercatori

Soltanto nel decennio 2008-2019, si stima che siano stati oltre 14mila i ricercatori, residenti in Italia prima dell’inizio del dottorato, trasferitisi all’estero. Con un enorme spreco di risorse pubbliche, dato che, secondo l’ex-ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, «ogni volta che un laureato se ne va dall’Italia, è un assegno di 250mila euro che noi andiamo a versare sul conto di un Paese che poi ci farà la competizione sui mercati internazionali, spesso con le idee sviluppate da italiani che abbiamo formato con i nostri soldi».

Una deriva che la Strategia proposta dal Tavolo del Mur chiede alla politica di fermare attraverso l’aumento, ma soprattutto, la stabilizzazione della spesa pubblica nella “ricerca di base”, quella che, secondo l’Ocse, «è il vero motore dell’innovazione» e «prerequisito fondamentale per il benessere, l’innovazione e il progresso sociale». Anche da qui, insomma, passa la tenuta e la coesione della nostra comunità nazionale, alle prese con le sfide della rivoluzione tecnologica. «Il sistema della ricerca – si legge, in proposito, in un altro passaggio del documento consegnato alla ministra Messa – ha al suo interno le risorse di conoscenza e competenza per assicurare una transizione equa e governata, che doti cittadini, lavoratori e imprese di abilità che consentano loro di rimanere al centro dei processi di sviluppo».

Dinamiche che, inevitabilmente, richiedono un forte investimento in capitale umano, invertendo la rotta che, dal 2008, vede una costante diminuzione del corpo docente, dei ricercatori e del personale tecnico-amministrativo delle università e degli enti pubblici di ricerca in Italia. «Un altro aspetto particolarmente grave», sottolineato nella relazione degli esperti. Tra il 2008 e il 2022, complessivamente il sistema della ricerca pubblica italiana ha perso il 10% del personale, passato da 136mila a 122mila unità. Nello specifico, i professori ordinari sono diminuiti del 20%, mentre l’aumento dei pro- fessori associati è legato soprattutto al passaggio dei ricercatori a tempo indeterminato. Se sommiamo queste due voci, vediamo che nel complesso passano da 42mila a 30mila unità, con un calo del 18%. Se sommiamo ad essi i nuovi ricercatori a tempo determinato di tipo A e B, arriviamo a 41.500 unità, riavvicinandoci ai livelli del 2008, ma con una struttura ben diversa. Per quanto riguarda gli assegni di ricerca – che la riforma del reclutamento universitario vuole eliminare per introdurre veri “contratti di ricerca” a tempo indeterminato – c’è una crescita dai 17mila del 2008 ai quasi 23mila del 2014, poi alcune oscillazioni intorno a quel valore (i dati del 2022 possono escludere gli assegni non ancora attivati nel resto dell’anno). «I n sintesi – è la proposta contenuta del Tavolo ministeriale – per tornare ai livelli del personale universitario del 2008 sarebbero necessari, rispetto alla situazione del 2022, 4mila professori ordinari in più, il passaggio a professori associati o ricercatori stabili di tutti gli attuali ricercatori a tempo determinato di tipo A e B e 10mila unità di personale tecnico-amministrativo».

Un programma che deve fare i conti anche con l’età media elevata dei professori universitari, che vedrà 3.600 pensionamenti tra gli ordinari entro il 2027, con un ulteriore calo del 25%, mentre tra gli associati e i ricercatori a tempo indeterminato la perdita sarà intorno al 14%. «In totale ci vorrebbero circa 12mila nuovi ingressi nel personale docente dell’Università per compensare le perdite registrate e previste tra 2008 e 2027». Un’inversione a U rispetto all’attuale trend più volte denunciato dall’Associazione dei dottori di ricerca Adi, secondo cui «più del 93% di ricercatori non strutturati è costretto ad abbandonare l’università al termine di percorsi di lavoro precario anche superiori ai 12 anni». Uno spreco che non ci possiamo più permettere.

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