mercoledì 1 ottobre 2014
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Che autorevoli membri di organi giurisdizionali – ordinari e amministrativi, comuni e speciali, su su fino alla Corte costituzionale – intervengano nel dibattito pubblico non limitandosi a offrire spunti di approfondimento culturale, ma impartendo lezioni agli organi politici o addirittura commentando sentenze di cui sono stati relatori, non è certo un fatto nuovo in Italia. Ma costituisce un costume discutibile, in quanto l’interlocutore non sa se la persona che si sta pronunciando esprime sue personali opinioni (avvalendosi della libertà di manifestazione del pensiero) o una qualche veduta dell’organo giurisdizionale di cui fa parte (in forme dunque non appropriate, visto che quest’ultimo dovrebbe limitarsi a parlare con le sue sentenze). Vi è in questo genere di interventi un margine di ambiguità: l’organo di garanzia rivendica un’aura quasi sacrale, con la pretesa di sottrarsi al dibattito politico (e alle critiche che ne sono il pane quotidiano), ma al tempo stesso interviene in tale dibattito, spesso con l’assurda pretesa di farlo da una posizione non di parte. In questa prospettiva va collocata anche l’intervista che il presidente della Corte costituzionale Giuseppe Tesauro ha rilasciato ieri al Corriere della Sera, esprimendo valutazioni assai discutibili, e riferendo dati di fatto inesatti, su una serie di temi, dall’elezione in Parlamento di due giudici costituzionali al regionalismo e alla fecondazione assistita. Data la delicatezza dei temi, è bene, qui, limitarci a quest’ultimo. Com’è noto, alcuni mesi orsono la Corte costituzionale è intervenuta pesantemente sulla legge n. 40 del 2004, dichiarando costituzionalmente illegittimo il divieto di fecondazione eterologa. E ora il presidente Tesauro torna sul tema, osservando che tale divieto era privo di «senso costituzionale» e aggiungendo che «in Europa, la fecondazione eterologa era vietata solo in Italia, Turchia e Lituania». Eppure, le cose non stanno così. Che il divieto di fecondazione eterologa fosse assai problematico può essere condivisibile, dato che esso incideva su una aspirazione profonda alla genitorialità da parte di numerose coppie. Ma che il divieto fosse privo di senso è opinione personale del presidente Tesauro: la giustificazione di tale divieto stava nel preservare la coincidenza fra genitorialità biologica e genitorialità sociologica e nell’assicurare a ogni bambino la coincidenza fra queste due figure. E che non si trattasse di un colpo di sole del legislatore italiano del 2004 è confermato anche dal fatto che un divieto simile esiste anche in Germania ed in Austria (ove è consentita la donazione dello sperma, ma non dell’ovulo), vale a dire in due fra le principali culture giuridiche del Vecchio Continente. E che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, pur spesso propensa a un attivismo giudiziale anche erratico, era giunta nel caso S.H. v. Austria alla conclusione che la scelta sul divieto di fecondazione eterologa rientrasse nel margine di apprezzamento spettante a ciascuno Stato membro del Consiglio d’Europa (avallando così l’opinione della Corte costituzionale austriaca, il più antico tribunale costituzionale operativo in Europa).

Certo, non ci si può spingere fino a ritenere che il divieto di fecondazione eterologa fosse imposto dalla Costituzione (la quale, almeno se intesa in senso storico, è ovviamente silente su questi temi). E non tutti gli argomenti addotti a sostegno della tesi della sua illegittimità costituzionale erano privi di pregio. Ma nella sentenza n. 162 del 2014, la Corte si è basata su argomenti assai discutibili: non solo ha creato di sana pianta un parametro costituzionale composto dagli art. 2, 3, 29, 31 e 32 della Costituzione, individuandovi un principio da cui deriverebbe il diritto di accesso alla fecondazione eterologa, ma si è spinta a considerazioni risibili, alcune delle quali sono oggi ripetute dal presidente Tesauro. La prima è che il divieto della fecondazione eterologa in Italia, in un contesto in cui essa è lecita in altri Paesi, si traduceva in una violazione del principio di eguaglianza, visto che a coloro che disponevano di risorse economiche era possibile ricorrere a tale tecnica in altri Paesi: il che è grosso modo come dire che sarebbe lecito fissare il proprio domicilio a Montecarlo per pagare meno tasse e che le tasse più alte in Italia sarebbero lesive del principio di eguaglianza, convertendo così la violazione della legge in criterio di legalità. La seconda è che il divieto di fecondazione eterologa sarebbe lesivo del diritto alla salute della coppia, dove si procede a una radicale soggettivizzazione di tale ultimo diritto che pare francamente poco seria: e verrebbe da chiedersi, in tale prospettiva, se la fecondazione eterologa possa essere considerata un diritto non della sola coppia eterosessuale sterile, ma anche di coppie di persone dello stesso sesso o di single, cosa che la Corte ha per ora escluso nella sent. 162/2014, pur in contraddizione con le (errate) premesse del suo ragionamento. La conclusione è dunque una soltanto: quella adottata in marzo e resa nota in maggio è stata una decisione puramente politica, basata su criteri ideologici estranei alla Costituzione, che ha travolto uno dei pilastri di una legge che, giusta o sbagliata che fosse secondo le opzioni ideologiche soggettive, dava invece corpo ad una delle scelte costituzionalmente possibili su questo punto. E il legislatore democratico gode di una legittimazione e di una forma decisionale (il dibattito pubblico) di cui il giudice costituzionale (quindici signori in toga che decidono in segreto) è strutturalmente privo. Il redattore di quella sentenza, divenuto presidente della Consulta, si lancia ora in una non necessaria difesa d’ufficio. Ma il suo intervento – spiace doverlo constatare – riflette opzioni ideologiche personali, non si tratta certo della viva vox Constitutionis.

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