La visita di Sergio Mattarella negli Usa
sabato 19 ottobre 2019

C’è un modo diverso e più efficace dei proclami sovranisti per difendere gli interessi del nostro Paese. O, se volete, c’è bisogno di un sovranismo di tipo diverso. Un altro modo, italiano ed europeo insieme, di esser "sovrani". Esercitato in modo gentile, ma quando è necessario risoluto, e sempre nelle sedi istituzionali della democrazia e dei rapporti tra gli Stati. Non a favore di "smartphone", insomma, e con l’obiettivo di accrescere i consensi per il nostro Paese, non verso una parte politica. Uno stile e una convinzione più che uno slogan. Sono alcune delle riflessioni che suggerisce la visita del presidente Sergio Mattarella negli Stati Uniti d’America. Missione che presentava rischi concreti di incidenti diplomatici, alla luce del divario politico-caratteriale con l’imprevedibile presidente americano Donald J. Trump, e per di più in un momento in cui almeno due dossier mettono i due Paesi in rotta di collisione: i dazi anti-europei (e anti-italiani) imposti dagli Usa e la crisi siriana. Su questo secondo versante il Mattarella che si è detto, con Trump, «profondamente preoccupato» per l’offensiva della Turchia ha incoraggiato la tardiva, ma decisiva, presa di posizione statunitense che ha portato al "cessate il fuoco".

È soprattutto sui dazi che questa visita ha però aperto uno spiraglio, forse timido ma certo inimmaginabile alla vigilia. Premessa, se non per un ripensamento, quanto meno per un alleggerimento della tensione. Il riferimento all’inutilità di una spirale di ritorsioni si è rivelata una mossa eccellente di Mattarella, che ha messo su un piatto della bilancia la determinazione europea a non stare a guardare, offrendo sull’altro tutte le convenienze di un passo indietro, nello spirito di una rinnovata amicizia, in particolare con il nostro Paese. Amicizia che – nonostante il delicatissimo contesto internazionale in cui si è svolta – questa visita è riuscita a consolidare. Il nostro capo dello Stato non ha esitato a spingersi fino al limite oltre il quale ci si poteva aspettare qualcuna delle intemerate cui il presidente americano ci ha abituato.

Ha "rischiato" con garbata fermezza il giusto, e in risposta ha ottenuto la disponibilità a «valutare attentamente» le ragioni italiane sulla dura politica protezionistica messa in campo dagli Usa. Resta nella memoria il curioso siparietto che è andato in scena, quando Mattarella ha "osato" interrompere la lunga filippica di Trump, chiedendo di poter finalmente prendere la parola. Un episodio che ne ha ricordato uno analogo avvenuto durante la sua visita in Austria, in luglio, quando un giornalista locale si era rivolto al presidente austriaco Van der Bellen per un giudizio sull’incombente procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, e Mattarella – quella volta – si era spinto sino a togliere garbatamente la parola al suo interlocutore, destinatario della domanda, per chiarire che la procedura di infrazione non aveva alcun fondamento.

Più che un altolà all’Europa fu l’occasione un portare chiaramente alla luce un processo virtuoso ormai avviato: il dialogo costruttivo ripreso e consolidato con la Ue, che rappresenta la vera continuità fra la precedente esperienza di governo del presidente Conte e la nuova, iniziata con una nuova maggioranza. Stavolta, sui dazi, certo, si tratta di un processo appena auspicato. Ma è già tanto che non ci sia stata una porta chiusa in faccia alla richiesta italiana. Ora un negoziatore europeo ai massimi livelli avrebbe uno spiraglio lasciato aperto in cui potersi intrufolare per intavolare una trattativa.

Un’ultima annotazione va fatta proprio sul divario di autorevolezza portato impietosamente alla luce da questo confronto fra il misurato presidente italiano e il "gaffeur" seriale alla guida della Casa Bianca.

In tempi in cui si torna a parlare di elezione diretta ci sarebbe da rifletterci sopra, e da non sottovalutare i pregi di un sistema di democrazia parlamentare che privilegia le figure moderate, inclusive e autorevoli rendendo più difficile che alla guida di un Paese intero possa arrivare anche l’intestatario di un modesto 26%, ossia la maggioranza più uno raggiunta in uno dei due schieramenti. Tralasciando il fatto che in Italia gli schieramenti non sono mai stati veramente due (e men che meno lo sono ora), mettere mano a un tassello fondamentale del sistema, senza preoccuparsi dei pesi e contrappesi da assicurare, sarebbe un esercizio molto pericoloso.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI