Passano le generazioni, mutano mentalità, preferenze, abitudini. Ma alcune costanti tutte italiane attraversano il tempo e le stagioni del Paese, indifferenti a epoche e mode. Le iperboli retoriche per definire situazioni e persone fanno parte di questo bagaglio che contribuisce a definirci per ciò che siamo, appassionati della realtà incredibilmente ricca nella quale siamo immersi e della sua narrazione immaginifica. Insieme all’attitudine tutta nostrana di mobilitarci con generosità senza pari quando ci sentiamo incalzati da una qualunque emergenza, questa propensione alle pennellate impressionistiche porta a creare figure come i medici “eroi” durante la pandemia, i volontari “angeli del fango” nelle alluvioni, gli “educatori di frontiera” nelle scuole delle periferie più dimenticate, o i “samaritani della porta accanto” per descrivere il vicinato solidale che soccorre le tante (e crescenti) solitudini delle nostre città.
Questa galleria di superlativi tuttavia non esaurisce affatto la nostra capacità di far fronte alle mutevoli sfide della realtà, perché sembra prescindere dalla paziente tessitura dell’ordinario, dal dovere compiuto lontano da qualunque proscenio. Eppure sembra che di questa ferialità fedele e generativa non ci si accorga pubblicamente fin quando non scatta l’allarme rosso e partono gli squilli di tromba. Un approccio coinvolgente che però non promette mai niente di buono. È infatti proprio il divampare dell’immaginifico che spesso prelude a un altrettanto repentino raffreddamento dell’entusiasmo, con il successivo oblìo di situazioni estreme e protagonisti applauditi. Tanto che il moltiplicarsi di promesse e impegni nel vivo delle crisi assai spesso – come ben sappiamo – fatica a trovare un compimento puntuale quando inevitabilmente, presto o tardi, il virus piega il capo, le acque rifluiscono, la periferia disperata sembra di nuovo sotto controllo, e torna a prevalere la quotidianità. Gli “eroi”, dovunque li troviamo all’opera, sono tali solo perché in loro quello è il vero nome del dovere compiuto senza neppure avvedersene.
È il nostro punto debole forse più ricorrente: imbattibili nella frenesia della battaglia, restiamo scarsi nella tenacia della coerenza giorno dopo giorno, come avessimo bisogno di vedere il peggio per capire di quale meglio (straordinario, peraltro) siamo capaci. Le grandi riforme apparse con chiarezza sul ciglio di un qualunque burrone tornano presto rinviabili, senza fretta. E si fa largo quel sonnambulismo, metà apatia e metà paura del futuro, che il Censis ha appena fotografato come evidenza saliente del tempo incerto che attraversiamo.
Lo sciopero che i medici hanno proclamato per oggi è figlio di questa eterna adolescenza emotiva. La crisi pandemica aveva mostrato come le professioni sanitarie (insieme ai camici bianchi, anche gli infermieri e gli operatori socio-sanitari) fossero determinanti per tener salda e ben stesa la rete della sanità italiana sotto un Paese che invecchia a velocità crescente. Un quadro sociodemografico che chiede un supplemento di serietà e di attenzione per il suo carico in aumento di disabilità, demenze, polipatologie, solitudini e non autosufficienze, con la risposta mediatica più udita a una sofferenza sempre più diffusa e acuta che non è purtroppo la cura delle persone in tutte le sue sfumature scientifiche e umane, come dovrebbe essere, ma la morte medicalmente assistita. Intanto i medici “eroi anti-Covid” vedono dimenticato quel riconoscimento (istituzionale ed economico) che pure gli era stato promesso e che anche i più moderati tra loro si attendevano come effetto della gratitudine tante volte esibita dagli italiani e dai loro rappresentanti durante il “biennio nero” della pandemia.
E si sentono abbandonati nella lotta impari con una burocrazia sanitaria cieca e spietata che scoraggia ogni slancio e incentiva la cessione di responsabilità.
Qualcosa di simile accade al volontariato, che per un caso del calendario celebra insieme all’agitazione dei medici la sua Giornata annuale. Proprio i volontari ci ricordano oggi, col tono umile e serio che gli appartiene e ci è caro, quanto il Paese gli debba in termini di sostegno sussidiario a ogni sorta di necessità sociale. Ma non basta. La voce attutita della dedizione quotidiana a una causa determinante come la crescita degli adulti di domani sale infatti dalla miriade di educatori che, a scuola e non solo, si spendono in un servizio che non cerca di certo la notorietà ma si attende comunque qualche forma – non necessariamente materiale – di riconoscenza pubblica, quei gesti di considerazione sociale che, uno dopo l’altro, diventano il segno della stima di una collettività che ha imparato a vedere e riconoscere chi porta frutto (e come sa farlo) e riesce una buona volta a prescindere dalle emozioni di un mattino, generatrici di rimozione. Un Paese che al divampare di entusiasmi e all’altrettanto rapido rifluire nella dimenticanza preferisce una meno spettacolare quotidianità: ecco quel che vogliamo diventare. Un compito che – diciamocelo – oggi ci attende tutti.