mercoledì 19 febbraio 2014
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Si fanno chiamare Ansar Beit al-Maqdis, ovvero "Paladini della Sacra Dimora", ma la minaccia formulata all’indomani dell’attentato suicida contro un pullman di turisti sudcoreani nell’estremo lembo meridionale del Sinai sembra priva di ogni connotato spirituale: «Raccomandiamo ai turisti di andarsene senza correre rischi prima della scadenza del termine del 20 febbraio», dice un messaggio fatto filtrare sui social network.  Non si sa con certezza se questi "Paladini" facciano davvero parte dell’ormai fittissima rete di al-Qaeda presente nella penisola, né se i ripetuti pronunciamenti a favore dei Fratelli Musulmani davvero giovino alla causa – francamente ormai persa – di un movimento che l’inesperienza e la cecità politica del proprio leader, il deposto presidente Morsi, ha condannato all’irrilevanza e all’esilio domestico. Si capisce bene però il rozzo ma efficacissimo disegno di Ansar Beit al-Maqdis, da mesi protagonista di innumerevoli attentati contro caserme, installazioni, posti di polizia fino all’assassinio del viceministro dell’Interno Mohammed Saeid: destabilizzare, creare il caos, rendere insicuri e poco frequentabili i siti archeologici e i villaggi turistici, unica vera risorsa – al netto dei cospicui aiuti in dollari provenienti dagli emiri del Golfo e parimenti dalla Russia (destinati tuttavia al solo comparto militare) – cui può attingere la già disastrata economia egiziana per tamponare la recessione che affligge il Paese. Non si può nemmeno escludere peraltro che il gruppo terroristico abbia avuto o abbia ancora forti legami con i Fratelli Musulmani: i primi finanziamenti documentati risalgono a tre anni fa attraverso Hamas e i Fratelli residenti a Gaza, ma apporti di armi e fondi sono passati anche attraverso la Libia. Da allora il gruppo è cresciuto ed è andato ad arricchire la fitta quanto nebulosa galassia di sigle che rappresentano la vera grande spina nel fianco di Abdel Fattah al-Sisi, l’uomo forte del Cairo promosso maresciallo dal presidente ad interim, Adly Mansour. Al-Sisi, che formalmente non ha ancora accettato la candidatura alle presidenziali che si dovrebbero tenere nel mese di aprile, appare senza equivoci l’unico soggetto in grado di tenere le redini dell’Egitto. «Una brutta copia di Mubarak», si è azzardato a definirlo uno dei pochi giornali non controllati dal governo. Non senza qualche ragione. La breve parabola della primavera egiziana che con la caduta del rais aveva fatto sperare (l’Occidente, soprattutto) nell’evoluzione in senso democratico del grande Paese affacciato sulla sponda sud del Mediterraneo si è spenta con il grigio e poco lungimirante mandato di Morsi fino a precipitare nell’attuale ristagno generale, in attesa che al Cairo nasca un governo legittimamente eletto. Ed è nelle more di questa transizione dove il tempo sembra essersi fermato che s’insinuano il jihad e il radicalismo islamico, colpendo là dove la pelle ancora sottile del rinascente regime è più sensibile: sul turismo e sulla sicurezza. Ma vi è un altro aspetto che va considerato. L’isolamento diplomatico in cui l’Europa e gli Stati Uniti hanno relegato l’Egitto non fa altro che spostare il baricentro geostrategico dei suoi interessi: tutti sanno che in questi ultimi mesi Il Cairo guarda con maggior attenzione e favore a Mosca e alle monarchie del Golfo, la prima in procinto di fornire caccia Mig-29M/M2, elicotteri Mi-35 oltre a sistemi di difesa aerea e costiera al posto di quelli americani, le seconde generosamente disponibili a fornire i 3 miliardi di dollari necessari per pagarli. La discutibilissima latitanza europea unita alle tante mal riuscite mosse di Washington non pare essere il miglior biglietto da visita per il futuro del più importante Paese del continente africano e al tempo stesso ineludibile chiave di volta per ogni possibile strategia occidentale in Medio Oriente. Una chiave che il jihadismo più estremo sta cercando con ogni mezzo di far saltare.
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