venerdì 24 settembre 2010
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Com’è già avvenuto in altri settori, può accadere che la crisi economica globale porti più sobrietà e serietà anche nel meccanismo degli aiuti internazionali allo sviluppo. Barack Obama ha annunciato la Global Developement Policy (Strategia per lo sviluppo globale) degli Usa in cui molta parte avranno il sostegno alle buone pratiche di governo da parte delle autorità dei Paesi bisognosi di aiuto e gli incentivi alle imprenditorie locali. Così facendo, ha offerto l’impatto politico e mediatico della Casa Bianca a una riflessione che, dall’Italia alla Germania, corre da tempo sotto traccia: a chi e a che cosa serve firmare assegni in bianco che in molti casi vanno ad alimentare non gli affamati ma gli affamatori, non i popoli ma i dittatori? O che finiscono imboscati a profitto delle burocrazie che se li passano di mano in mano, da quelle pletoriche degli organismi internazionali a quelle avidissime delle nazioni disastrate del Terzo Mondo?Il tema è serio e contiene, inutile nasconderlo, un’implicita ma dura critica all’Onu e alle sue Agenzie. Gli Obiettivi del Millennio, già lo sappiamo, saranno in larga parte disattesi. E i risultati raggiunti (per la prima volta da 15 anni il numero di coloro che non hanno cibo a sufficienza è calato in termini assoluti: 925 milioni oggi, rispetto a 1 miliardo e 23 milioni nel 2009) sono in gran parte attribuibili allo sviluppo autonomo di Paesi come India e Cina, e non alle campagne internazionali contro la fame. Il cambio di rotta di Obama e di altri, quindi, è in primo luogo un richiamo all’Onu, al suo modo di operare e, non ultimo, al conto che rende (o non rende) dei finanziamenti ricevuti. Un incitamento neppur tanto velato a dare impulso a quella riforma di cui si discute da anni e senza molto costrutto.Ma se l’obiettivo è far crescere la democrazia (politica ed economica) per far diminuire la fame (naturale e provocata), il nuovo atteggiamento dei Paesi donatori chiama in causa anche i Paesi beneficiari. La povertà e il bisogno non escludono l’onestà, lo spirito d’iniziativa, la trasparenza, il senso di responsabilità. Semmai li impongono. Un ragionamento non facile da far passare ma meno ostico di quanto potrebbe sembrare, soprattutto se accompagnato a una maggiore e reale apertura delle frontiere commerciali, spesso ancora chiuse ai prodotti dei Paesi in via di sviluppo.Il terzo ostacolo, forse il più impervio, a una svolta che pare comunque inevitabile e doverosa, sta nell’organizzare una volontà comune da parte dei Paesi disposti a impegnarsi in una politica di aiuto allo sviluppo. Il 66% (610 milioni di persone) degli affamati di tutto il mondo è concentrato in soli sette Paesi: Bangladesh, Cina, Repubblica democratica del Congo, Etiopia, India, Indonesia e Pakistan. Il mero elenco basta a farci capire quali enormi problemi politici dovrebbero essere affrontati per decidere un qualunque piano d’intervento laddove la fame colpisce più crudelmente.Ma proviamo con esempi meno clamorosi eppure indicativi. Il Sudan, afflitto dalla dittatura di Omar al-Bashir, o l’Eritrea che il presidente Aferwerki ha trasformato in un incubo per i diritti umani. In entrambi i Paesi la povertà è clamorosa. Entrambi i regimi, però, hanno protettori influenti, interessati a tutto tranne che al benessere della popolazione. Che fare? L’unanimità politica sulla lotta alla fame non si avrà mai, come non la si è avuta sulla lotta all’effetto serra. Restano due ipotesi: o l’Onu si dà una mossa e si riforma al più presto; oppure gli Usa radunano intorno alla propria strategia un gruppo di Paesi donatori capace di imporla sul campo degli aiuti. Una Coalition of the Willing, un esercito di volenterosi, per nutrire invece che per sparare.
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