domenica 1 agosto 2010
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A distanza di due decenni i progetti e le speranze di un nuovo ordine internazionale e di pace globale dei primi anni 90 appaiono come i sogni di un bambino. E forse un po’ lo erano, dato che in fondo il nuovo sistema internazionale che si andava formando con inaspettata velocità, dopo mezzo secolo di immobilismo, era tutto fuorché adulto. Da poco finita la Guerra fredda e crollato il Patto di Varsavia, il mondo era concentrato sul processo di riunificazione delle due Germanie ormai prossimo alla conclusione; l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein il 2 agosto 1990, lungi dall’incepparla, finì con l’accelerare l’ascesa degli Stati Uniti quale unica super-potenza, inaugurando l’epoca – breve e sfortunata – dell’unipolarismo statunitense.L’emirato del Kuwait, da qualcosa di esotico che, per la maggior parte delle persone, stava lì, in qualche parte nel Medio Oriente, divenne un luogo simbolo di una ritrovata concordia internazionale. Le Nazioni Unite, il pachiderma bloccato per decenni dai veti incrociati dalle due superpotenze, apparvero – per un breve periodo – lo strumento di gestione dei conflitti sognato nel lontano 1945: le risoluzioni di condanna dell’occupazione irachena e l’ultimatum del Consiglio di Sicurezza del 29 novembre 1990 furono infatti l’architrave per costruire attorno a Washington una coalizione di 37 Paesi e per legittimare l’attacco all’Iraq, con la famosa operazione militare Tempesta del Deserto. Questo senso di svolta epocale venne favorito anche dall’ascesa – proprio con la crisi kuwaitiana – della tivù globale, con gli ormai mitici reportage della Cnn e con una copertura senza precedenti delle trattative e poi del conflitto. La spettacolarizzazione della guerra, trasformata da crudele massacro – com’è sempre, senza eccezioni - a una sorta di videogioco, illuse i governi e le opinioni pubbliche occidentali sulla capacità della comunità internazionale di governare le crisi e di imporre le paci in ogni area di tensione, se necessario con la forza. Per molti si era alla vigilia di un nuovo sistema internazionale, incentrato sull’autorità di Washington, che avrebbe diffuso globalmente i valori della democrazia, del liberalismo, del libero mercato. Si parlò addirittura di 'fine della storia': il solito abbaglio di chi si concentra sull’immediato, senza la necessaria prospettiva storica di lungo periodo. La schiacciante vittoria contro le truppe irachene creò il mito delle armi intelligenti, degli interventi chirurgici, degli scudi anti-missile. Illuse specialisti e non sul ruolo dell’arma aerea per prevalere nelle guerre moderne in modo rapido e indolore, dimenticando che una cosa è trionfare in una battaglia, altro controllare stabilmente il territorio, come hanno insegnato con durezza le vicende afghane. È stato in fondo un breve periodo, niente più di un battito di ciglia del Tempo: la fine della contrapposizione con l’Unione Sovietica, la liberazione del Kuwait, l’Europa non più divisa, il riconoscimento fra Olp e Israele nel 1993 che fece sperare nella fine di cinquant’anni di conflitto fra arabi e israeliani. Per una di quelle amare ironie che solo la storia sa creare, l’illusione di questo nuovo ordine nacque durante la presidenza di Bush padre nella crisi irachena del ’90-’91 e si è spenta definitivamente con la decisione di Bush figlio di attaccare nuovamente l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003 e con i terribili anni di anarchia e violenza nel Paese. Dopo il decennio dell’ordine globale di Washington, abbiamo vissuto il decennio del terrore e del declino statunitense, delle crisi politiche e militari incancrenite, dell’emergere di nuovi attori internazionali, delle tempeste finanziarie mondiali. Sarebbe troppo facile giudicare con severità quelle speranze eccessive, così come i troppi errori commessi, le ambiguità e le incongruenze politiche. Ma è un fatto che la primavera politica seguita al disgelo bipolare non si è mai tramutata in estate.
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