mercoledì 13 aprile 2011
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«Papà, cos’è un fioretto?». La domanda è arrivata a bruciapelo a un mio amico quarantenne dal figlio che in classe (quarta elementare) ha sentito pronunciare quella parola dal suo compagno di banco, che gli aveva confidato di come – durante la Quaresima – si fosse impegnato con un fioretto non da poco: niente tv per tre giorni alla settimana. Sacrificio che sta costando fatica al bambino, e che ha incuriosito il figlio del mio amico, digiuno della materia in quanto cresciuto in una famiglia sostanzialmente agnostica. «Che cos’è un fioretto?» Alla mente del mio amico si sono riaffacciati lontani ricordi d’infanzia, i piccoli-grandi impegni assunti solennemente durante le sue Quaresime degli anni Settanta. A volte riusciva a onorarli, a volte no. Nati da una volontà e da uno spirito di sacrificio di cui va ancora fiero, ma di cui ha smarrito la ragione, come lui stesso ha amaramente ammesso quando me ne ha parlato: «Non so più perché ne valga la pena...».Un tempo (non secoli fa) erano piuttosto diffusi, i fioretti. Pratica abituale in Quaresima e non solo. Tra i piccoli, ma anche tra gli adulti. Oggi sono una rarità, guardati con sufficienza, con un sorriso di compatimento a stento trattenuto, considerati alla stregua di un ferrovecchio spirituale. Quasi spazzati via dalla secolarizzazione che ha relegato Dio a soprammobile nel salotto buono dei valori, qualcosa che c’è ma, in fondo, non conta poi così tanto nel giorno per giorno. Fare un sacrificio, perché? Per chi? In nome di cosa? Le domande bussano insistenti alla mente del mio amico quarantenne, provocato dalla domanda del figlio a trovare una risposta convincente. E diventano una sfida anche per me.C’è un modo di vivere il sacrificio come un "di meno", un fattore ultimamente negativo, che nasce da una concezione riduttiva del cristianesimo inteso come una sorta di prontuario del "non fare". Una concezione oggi piuttosto diffusa (anche tra certi cattolici). Nel libro-intervista con Peter Seewald Luce del mondo, Benedetto XVI dice: «Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva, un’esistenza vissuta sempre e soltanto "contro" sarebbe insopportabile».Ci sono vari modi per ridurre, anche involontariamente, la portata educativa del fioretto: concepirlo come una rinuncia fine a se stessa o, al massimo, orientata a irrobustire la volontà personale. Oppure, quasi all’opposto, come qualcosa che si fa "per gli altri" (risparmio per dare un contributo a un’opera meritoria, riduco gli sprechi di energia e di acqua per salvaguardare l’ambiente, ecc.). Tutti obiettivi che hanno una loro nobiltà, ma che ultimamente fanno leva sulla capacità di chi si cimenta nel fioretto, più che sull’attrattiva per Qualcosa di grande. Anzi, di Qualcuno di grande.«Cristo me trae tutto, tanto è bello», scriveva Jacopone da Todi in una delle sue indimenticabili odi, che a distanza di secoli mantiene inalterata la sua potenza evocativa. È solo se viene mosso da un fascino, da un’attrattiva, che l’uomo può trovare l’energia necessaria al sacrificio. Al sacrum facere, al rendere sacro ciò che si fa. Il sacrificio diventa così la chiave di volta dell’esistenza. Per questo, digiuno ed elemosina (i gesti che più vengono richiamati durante la Quaresima) non sono una rinuncia, ma un’affermazione: l’affermazione di un’attrattiva che muove il cuore dell’uomo, gli dà la capacità di "fare a meno" di qualcosa che il mondo ritiene irrinunciabile per seguire Qualcosa di cui non si può fare a meno se si vuole la vera felicità. «Essere uomini è come una scalata di montagna, con ripide salite – dice ancora il Papa in Luce del mondo – ma è attraverso di esse che raggiungiamo le cime e possiamo sperimentare la bellezza dell’essere».È solo per ammirare la bellezza di quelle cime, è solo per il fascino che l’Amato esercita sui nostri cuori, che vale la pena fare un fioretto. Anche oggi, anche in quest’epoca che dimentica l’Amato e insieme ne avverte la struggente nostalgia.
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