martedì 12 ottobre 2010
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Ogni volta che piangiamo nostri caduti in una missione militare internazionale – oggi quattro insieme –, ci si interroga legittimamente sul senso del loro sacrificio. Non si tratta, non si dovrebbe trattare, di una messa in discussione del lavoro svolto in Afghanistan in questi anni. Ma davanti all’aumento delle vittime in azione e alla possibilità di mutare regole d’ingaggio o di dotare anche i nostri bombardieri di armamenti maggiori, come hanno fatto già altri contingenti, non è inopportuno aprire una discussione serena e costruttiva. Una discussione che faccia salvo l’impegno su quel fronte – frutto di una scelta precisa e reiterata all’interno di un’alleanza fondamentale dalla quale non possiamo svincolarci – , anche per non dare ai taleban l’occasione per inserirsi sanguinosamente nel dibattito con altri attacchi, tesi a indebolire la volontà politica di restare a presidiare una terra violenta e sfortunata dove la speranza della democrazia è faticosa, e appena cominciata.Non è nemmeno fuori luogo ribadire che i quasi 4mila soldati italiani hanno compiti ampli e diversi, che vanno dalla protezione della popolazione civile all’addestramento delle nuove forze armate e di polizia locali, in funzione di stabilizzazione di quello che nel 2001, al tempo dell’invasione americana, era uno Stato fallito, il cui governo dei taleban era riconosciuto come legittimo soltanto da una manciata di nazioni musulmane. In tutto ciò il nostro contingente non si sottrae, quando necessario, ai combattimenti per contenere o allontanare gli insorti, che con la forza cercano di ostacolare la pacificazione del Paese sotto le istituzioni elette proprio grazie alla presenza e alla tutela internazionale.Sulla bilancia vanno ora posti, con realismo, da una parte il dovere di concludere un intervento che non può essere infinito e che verosimilmente non lascerà certo un Afghanistan completamente risanato e dall’altra i costi in vite umane che questo comporta. Le vite dei giovani che stamattina verranno onorati in Santa Maria degli Angeli a Roma, come le vite dei civili che potrebbero finire sotto le bombe che gli aerei italiani in qualche caso sarebbero chiamati a sganciare. Errori sono stati compiuti – e non solo dagli americani – e altri purtroppo vi saranno.Per questo risulta utile e doveroso un passaggio parlamentare, auspicato pure dallo stesso ministro della Difesa, prima di assumere decisioni così rilevanti. La sensibilità che la nostra opinione pubblica ha sviluppato potrebbe suggerire di completare l’opera afghana con un investimento maggiore in termini di formazione delle truppe autoctone, chiamate dal 2014 a garantire la sicurezza della propria popolazione, piuttosto che sul dispositivo bellico schierato a supporto del contingente. Anche in sintonia con quanto ci chiede Washington. D’altro canto, non si può rinunciare a ogni davvero utile tutela che vada a protezione dei militari sul campo.Un equilibrio difficile da raggiungere, che rischia inevitabilmente di dare maggiore risposta a qualche esigenza a scapito di altre. Ed è qui che va riconosciuto il sottile crinale su cui ci muoviamo. La guerra costituisce per noi italiani ed europei – consapevoli dei mali che essa provoca – più una eventualità da scongiurare o almeno da abbreviare che non una sfida da vincere in armi. Non è la pusillanimità di Venere contrapposta a Marte (gli Stati Uniti) – secondo la tesi di un noto pamphlet di Robert Kagan –, bensì un approccio maturato compiutamente dopo gli orrori dei due conflitti mondiali combattuti nel Vecchio Continente. Una prospettiva, tuttavia, che spesso si scontra con la necessità della fermezza di fronte a chi non esita a sfidare i fondamenti della convivenza e della civiltà.Di tutto ciò sarà bene discutere, nelle sedi appropriate, con la serietà e la responsabilità necessarie. Il migliore modo per arrivare a decisioni senza ombre (di nessun tipo) e per dare riconoscimento al sacrificio dei nostri caduti.
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