L’eredità del Ventidue. Cambi climatici e sovranità in relazione
venerdì 30 dicembre 2022

Il 2022 è stato un anno difficile segnato da due vicende destinate a lasciare una traccia profonda nel futuro che ci attende.
Secondo le statistiche, è stato l’anno più caldo degli ultimi secoli. Siccità, tempeste, eventi atmosferici estremi si sono susseguiti, aumentando in misura significativa anche il numero delle persone che emigrano per motivi climatici. L’innalzamento della temperatura è ormai un’emergenza destinata a incidere pesantemente sull’agenda dei prossimi anni.

Sul piano geopolitico, l’invasione dell’Ucraina ha segnato la fine della stagione iniziata con la caduta del muro di Berlino: invece di un mondo omogeneo, oggi abbiamo a che fare col nodo della convivenza tra culture, anche politiche, diversissime costrette a condividere un unico pianeta diventato ormai terribilmente piccolo e interconnesso. La globalizzazione, per come si è prodotta all’inizio del secolo, è terminata. Ma, al di là delle pulsioni localistiche, la verità è che non si può tornare indietro. Anche se non è chiaro come sia possibile andare avanti.

Ad accomunare queste due questioni è la legge dell’interdipendenza: la catena delle interrelazioni, dei feedback, delle conseguenze inattese è ormai troppo lunga e intricata da sfuggire al controllo di qualsiasi attore. Siamo in un’epoca in cui non c’è un’autorità politica, economica, scientifica o religiosa in grado di risolvere, da sola, i problemi.

Sostenibilità e convivenza tra culture sono irriducibili alla sola dimensione nazionale. Non si tratta di un passaggio da poco. La stessa modernità si fonda sulla sovranità territoriale. Da cui poi deriva il principio di legalità sul quale si regge la fitta rete dei rapporti sociali ed economici che costituiscono la società contemporanea.

Non che il principio di sovranità sia venuto meno. Anche perché ne abbiamo ancora terribilmente bisogno. Ma questo 2022 ci dice che oggi l’idea moderna di sovranità non basta più. Per comprendere, trattare e risolvere le questioni del cambiamento climatico e della convivenza tra le diverse matrici culturali mondiali abbiamo bisogno del contributo di una pluralità di attori. Ogni singolo Paese, ogni singola organizzazione, ogni singola persona possono e devono dare il proprio contributo. Ma la soluzione a questi problemi può nascere solo dalla collaborazione.

La sovranità – questo è il punto – oggi va concepita in relazione a ciò che la supera. Nel tempo (non contano solo i viventi ma anche la storia passata e le future generazioni) e nello spazio (per quanto si vogliono sigillare le frontiere, i fenomeni dipendono da quanto accade in un altrove spesso imprecisato, con conseguenze sui poteri costituiti).

Dobbiamo ammettere che non abbiamo né la cultura né le istituzioni globali per far fronte a questa situazione storicamente inedita.
Sul piano culturale, l’epoca della “sovranità in relazione” ha bisogno di una cultura del dialogo per evitare che la complessità delle questioni si trasformi in una guerra di tutti contro tutti. Il rischio terribile è che, in un pianeta con problemi comuni ma dove le distanze antropologiche e culturali sono profonde, le inevitabili tensioni siano frettolosamente ridotte allo schema semplicistico amico-nemico. Oggi tradotto nella contrapposizione democrazia-autocrazia.

Per scongiurare un tale esito, il punto di partenza è riconoscere che le categorie stesse della politica guerreggiata – come “conquista” o “vittoria” – non reggono più. Come le vicende ucraine degli ultimi mesi confermano (ma si potrebbe dire lo stesso per tante altre situazioni), in un mondo interconnesso l’idea di “conquistare’ un territorio – cioè di spostare un confine, sottomettendo un’intera popolazione – non ha più senso.

Né si può pensare di “vincere” sbaragliando il “nemico”: gli interessi, le connessioni, gli effetti collaterali sono troppo fitti e imprevedibili per poter distinguere con chiarezza vincitori e vinti.

La cultura di cui abbiamo bisogno è piuttosto quella di un dialogo capace di tessere di continuo un filo che non raggiunge mai un punto terminale. E che è capace di ripartire anche dai fallimenti, dai momenti critici, dai tradimenti, perché tiene lo sguardo fissato sul ciò che unisce piuttosto che su ciò che divide. Sul piano istituzionale il 2022 ci dice delle gravi lacune che rimangono da colmare.

Di fronte all’aggravarsi dei cambiamenti climatici la Cop22 ha manifestato tutti i limiti di un modello negoziale che non riesce a darsi delle procedure per arrivare a decisioni vincolanti e davvero efficaci. Difficoltà che ritroviamo anche nella Ue: dopo i passi davanti compiuti durante la pandemia e nonostante la sostanziale unità tenuta sulla vicenda Ucraina, l’Europa fatica ad avere quella scioltezza istituzionale essenziale per interpretare il tempo che stiamo vivendo.

Quali meccanismi istituzionali possono aiutarci a non incagliarci nella griglia stretta dell’interesse nazionale che in realtà tradisce l’interesse degli stessi cittadini? Per non dir nulla dell’Onu che non riesce a essere quel luogo di confronto e dialogo sui temi della convivenza tra culture diverse di cui oggi avremmo estremo bisogno.

Siamo in un drammatico vuoto istituzionale e in una tensione politico-culturale che ci espone al rischio di andare incontro un periodo di forte instabilità. Imparare la lezione del 2022 è difficil, ma fondamentale: lamentarsi serve a poco. C’è invece molto da lavorare. Come in tante altre epoche della storia, dobbiamo cambiare la testa e il cuore e insieme le forme istituzionali del mondo in cui viviamo. Compito difficile, ma entusiasmante.


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