mercoledì 31 agosto 2011
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Sulle prime, qui da noi come in tutto l’Occidente, molti – con l’eccezione di Avvenire – non hanno dato gran peso al referendum che in gennaio ha spianato la strada all’indipendenza del Sud Sudan. Subito dopo però abbiamo assistito alla fine dei regimi di Ben Ali e Mubarak, ai disordini in Bahrein e Yemen, alla rivolta in Libia e alla caduta di Gheddafi, che apre un futuro dai tratti molto incerti, mentre la Siria tenta di soffocare i movimenti rivoluzionari. Abbiamo visto i dimostranti egiziani accampati in Piazza Tahrir e i contro-dimostranti reclutati dal governo lanciare al galoppo i loro cammelli. Con stupore e passione abbiamo avvertito una nuova, possente, domanda di libertà in popoli che tanti giudicavano condannati a un immobilismo soffocante. Eppure viene il momento di fare il punto: le tante immagini che i media hanno rilanciato ci hanno dato la sensazione (o meglio l’illusione) di essere "in prima linea", ma in fondo che cosa abbiamo capito di quel che è successo e soprattutto di quel che succederà? Nella prima euforia delle rivoluzioni, mentre cadevano tanti riferimenti consueti, lo scenario sembrava talmente cambiato da risultare irriconoscibile. Una gigantesca tabula rasa, senza nessun legame con il passato? Chiaramente no. Ogni giorno che passa conferma l’impressione che queste rivolte abbiano introdotto una reale novità, ma innestandosi in un contesto specifico. Nuova è comunque la rivendicazione di maggiori libertà, avanzata da una generazione che alcuni, come Olivier Roy, già da parecchi anni invitano a definire "post-islamista". Non nel senso che abbia abbandonato la religione, ma nel senso che vive con essa un rapporto diverso, non più riducibile all’alternativa tra movimenti islamisti di contestazione e religione quietista propagata da Stati che solo con molta miopia si sono potuti definire "laici". Come l’uccisione di Benladen non significa la fine del terrorismo, così anche il nuovo scenario mediorientale non implica affatto la scomparsa dei movimenti d’ispirazione islamista. Al contrario c’è da scommettere che essi, forza ben organizzata benché soggetta a imprevedibili evoluzioni interne, svolgeranno un ruolo molto significativo negli anni a venire. Tuttavia l’elemento più impressionante che emerge dalle rivoluzioni è lo scollamento tra le nuove generazioni e le istituzioni religiose ufficiali, musulmane e cristiane. Un terzo fattore, finora sottovalutato, è il peso dell’economia. Quasi tutti gli Stati mediorientali sono fondati su un sistema di rendite che, soprattutto là dove il nuovo boom petrolifero non interviene a ripianare i debiti, si sta rivelando insostenibile. Come già la rivoluzione dell’89 poté essere spiegata anche con la necessità di aprire nuovi mercati, così anche nella primavera araba una chiave di lettura analoga non è da scartare. Se è così, poiché gli Stati "da riformare" non si limitano a Sudan, Egitto, Tunisia e Libia, ci si può aspettare che le pressioni e i disordini continueranno ancora a lungo. Nel frattempo l’Europa ha ritrovato, in forma acutizzata, il problema dei profughi e dei migranti. Una politica lungimirante vorrebbe che si percorresse la strada di un rinnovato sostegno economico, tanto più che anche la rivoluzione dagli ideali più nobili, se non riesce ad assicurare un minimo di benessere, è votata al fallimento. E i cristiani in tutto questo, dove si collocano? Prima della rivoluzione di gennaio-febbraio si sono rivelati un’importante cartina di tornasole. Quando, dopo gli attentati di Capodanno ad Alessandria, i dimostranti hanno preso di mira i rappresentanti del governo, qualcuno ha iniziato a capire che o i copti erano impazziti o l’amministrazione egiziana non era quel baluardo delle minoranze che ci veniva dipinto abitualmente. Nei giorni delle manifestazioni, una ritrovata concordia islamo-cristiana ha acceso molte speranze. Ecco perché la ripresa delle violenze inter-confessionali non può non destare moltissima preoccupazione. Nel nuovo Medio Oriente che si va disegnando ci sarà più o meno libertà religiosa? Un dato emerge comunque con chiarezza: il vecchio sistema di protezione, che peraltro non ha impedito un imponente esodo dalla regione, non c’è più o sta tramontando. Aggrapparsi a quanto di esso rimane non è una strategia che porterà lontano. Che uomo vuol essere l’uomo del terzo millennio? È questa la domanda che – osservava di recente il cardinal Scola – riecheggia con forza a tutte le latitudini, in Maghreb ma non solo.
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