sabato 15 ottobre 2016
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Il concetto di economia circolare, che sta dilagando nelle agende di parlamenti, governi, e aziende, sembra un termine tecnico. Invece esso prelude a un cambiamento epocale, soprattutto del pensare e del vivere. È un cambiamento altrettanto radicale – e di segno opposto – rispetto a quello degli ultimi spensierati anni del consumismo terminale. Decenni fa per molti giovani della generazione-eskimo era segno identitario indossare vecchi indumenti militari, robusti e duraturi, riciclandoli in una nuova e prolungata vita. Oggi è segno identitario giovanile comprare e indossare pantaloni pre-stracciati. Questi sono 'realizzati' da raffinati robot industriali, costruiti con gran impegno di materiali e di energia, per sostituire gli umani non solo nel produrre, ma ora addirittura anche nel consumare. Perché i consumatori terminali non consumano abbastanza.  Ecco, l’economia circolare è l’esatto contrario di tutto questo. Non è una faccenda di ecoingegneria. È una contro-rivoluzione antropologica. Nell’economia circolare il prelievo di materiali dalla natura è ridotto al minimo possibile. Ciò avviene grazie all’aumento della durata, del riuso, dell’ammodernamento, della riparazione, e del riciclo dei manufatti e dei materiali. In questo modo essi 'circolano' quindi nell’economia reale molte più volte e molto più a lungo, invece di attraversala brevemente sotto forma di merci effimere per uscirne rapidamente come spazzatura e inquinamento. Secondo molti studiosi, con le migliori tecnologie già disponibili l’economia materiale può darci abbastanza benessere, pur usando solo un decimo delle materie prime e un terzo dell’energia attuali. Queste riduzioni così rilevanti dei consumi materiali sono preconizzate per esempio dal Factor 10 Institute (Istituto del fattore 10), dalla strategia energetica dei governi svizzeri dal 2002, per una 'società da 2000 watt' (2000 watt pro capite, invece degli attuali 6000), dal think-tank di scienziati francesi e europei Negawatt – e da molti altri. Ma allora, perché l’'economia del buon senso' non prende piede? Le 'tre vie' dell’economia dell’oro ci danno buoni indizi. Una parte dell’oro mondiale lavorato circola da secoli, fuso e rifuso in innumerevoli manufatti: moltissimo valore d’uso (sommato nel tempo) è generato da poco materiale usato e riusato. Una seconda parte dell’oro mondiale è estratta con fatica e danni ambientali da sottoterra, per rimetterla subito sottoterra nei caveau delle banche e degli Stati: molto materiale genera zero valore d’uso. Sottoterra, infine, seppelliamo e disperdiamo una terza parte dell’oro mondiale lavorato: quello contenuto nei telefonini e in altri dispositivi che finiscono nelle discariche solo dopo qualche anno dalla sua estrazione mineraria: molto materiale genera un modesto e brevissimo valore d’uso. Di queste 'tre vie dell’oro', la prima è il prototipo dell’economia circolare, la seconda e la terza lo sono dell’economia lineare. Il nostro 'hardware sociale' – ovvero la tecnologia – saprebbe bene come evitare i due destini insensati dell’oro, e come ridurre di centinaia di volte i danni sociali e ambientali associati alla sua produzione. Ciò che ci impedisce di farlo è il nostro 'software sociale'. La seconda 'via insensata dell’oro' (quella verso i caveau), non la abbandoniamo a causa delle convenzioni finanziarie che attribuiscono all’oro un valore di scambio svincolato dal suo valore d’uso. La terza 'via insensata dell’oro' (quella verso le discariche) non la abbandoniamo a causa delle scelte politiche, che determinano cosa è tassato e cosa è sovvenzionato dallo Stato: l’uso di natura, suolo, materiali e energia (relativamente scarsi, quindi da risparmiare) è poco tassato o addirittura è sovvenzionato, il che favorisce il loro spreco. Il costo totale del lavoro umano (che abbiamo in abbondanza e in parte non sappiamo come impiegare) invece è gravato da alti prelievi previdenziali e tasse. Ciò incita a risparmiarne il più possibile, impiegando, al posto del lavoro, sempre più macchine, più materiali, e più energia, con i relativi danni ambientali. Una ' riforma fiscale ecologica' dovrebbe semplicemente invertire il peso di queste tassazioni: meno tasse sul lavoro, più tasse su energia e materiali. «Disoccupati diventerebbero i chilowatt e le tonnellate, non le persone», disse nel 1998 il fondatore del Wuppertal Institut Ernst Ulrich von Weiszaecker nel premiato documentario svizzero di Beppe Grillo Un futuro sostenibile. Anche secondo il professore zurighese e ginevrino Walter Stahel, il padre – anzi «il nonno», come egli dice – dell’economia circolare, una «riforma fiscale ecologica» è il provvedimento-cardine verso un’economia con meno danni ambientali e con più occupazione. Il titolo del suo primo libro nel 1976, Il potenziale per sostituire l’energia con la manodopera, può sembrare un errore di stampa o un anacronismo. Ma come? Da millenni 'progresso' vuol dire far lavorare meno gli umani e più le macchine. Certo, ma è tutta una questione di scala. Oltre una certa dimensione della popolazione mondiale e delle sue attività materiali, quello che è stato progresso per gli individui, si trasforma in boomerang per la specie umana, per il suo ambiente e per molte altre specie. Troppo uso e troppo spreco di troppi materiali e di troppa energia portano una società globale di sette miliardi di umani a compromettere gravemente integrità e equilibri planetari consolidati da millenni. «Sostituire l’energia con la manodopera» ( Walter Stahel) non vuol dire «rinunciare alla lavatrice», né al progresso tecnico. Vuol dire dare una direzione a questo progresso, usando il genio e la manodopera per prolungare la vita delle cose, non per abbreviarla. Istitut de la durée o Product-life Institute si chiama con pertinenza l’organismo creato negli anni ’80 a Ginevra da Walter Stahel e – non a caso – dal suo sodale, il docente emerito di 'economia del servizio' all’Università di Ginevra, il triestino Orio Giarini. Il contributo principale di questi due ecopionieri e dei loro libri (per esempio Dialogo sulla ricchezza e sul benessere di Orio Giarini) non è nell’eco-ingegneria, ma nell’economia politica. Si tratta niente di meno che della ridefinizione del concetto di valore economico delle cose: il valore è nel servizio realmente reso dalle cose, non nella loro produzione o nel loro commercio. Se questo è vero, allora cambia davvero tutto. Nell’era dell’iperconsumismo terminale, la conservazione delle cose e della natura diventa sovversione del disordine costituito. 
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