giovedì 23 ottobre 2014
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L’Eurozona continua a mostrare segni di debolezza che riguardano l’economia reale ancor prima di quella finanziaria. Secondo la recente revisione dell’Istat, la crescita del Pil italiano è stata negativa nel quarto trimestre 2013 (-0,1%), nulla nel primo trimestre 2014 e ancora negativa (-0,2%) nel secondo. Il Pil della Francia si aggira attorno allo zero dalla seconda metà del 2013. E anche la Germania manifesta oggi chiari segni di debolezza: alla riduzione dello 0,2% del Pil nel secondo trimestre sono seguiti i dati negativi per l’export (-5,8%) e la produzione industriale (-4,3%), mentre l’indice Zew della fiducia è passato in negativo. Tutto fa pensare a una possibile contrazione del Pil tedesco anche nel terzo trimestre, che significherebbe il ritorno della Germania in recessione tecnica. Per il Fondo monetario tra le sette maggiori economie mondiali per Pil calcolato a parità di potere di acquisto, ormai l’unica europea è quella tedesca, che è solo un quinto di quella cinese e poco più della metà di quella indiana. Tre sono gli aspetti che questi dati mettono in luce per le economie dell’Eurozona: il primo è che il rischio di una recessione perdurante si accentua; il secondo è che tali economie si muovono sempre più in sincronia; il terzo è che sembrano indirizzate a una progressiva irrilevanza geopolitica oltre che geo-economica.  Di fronte alla crisi dilaga l’euroscetticismo, si invocano referendum per uscire dall’Euro, i nazionalismi xenofobi ritornano prepotenti. In realtà l’evidenza che dovrebbe imporsi è un’altra: che nessuno si salva da solo e che abbiamo bisogno di procedere con passo più deciso nella costruzione europea. Siamo su un crinale: o si attribuiscono, cedendo sovranità nazionale, poteri effettivi e un bilancio consistente a un Governo europeo, con solidi meccanismi diretti o indiretti di legittimazione elettorale della rappresentanza politica; oppure l’Unione manifesterà sempre più le contraddizioni del suo presente assetto - e in particolare del quasi ubiquo ricorso al metodo intergovernativo sulle questioni cruciali fino al collasso se non alla sua diluizione e al declino delle economie dei suoi membri.  Proporre un’unione politica, oggi, può sembrare un’idealista mancanza di realismo. Invece proprio oggi lo slancio ideale è quanto di più realista ci sia. Certo, il Governo europeo e l’unione politica non saranno per domani, ma, perché il cammino sia sicuro, è sempre bene individuare la meta. Per comprenderlo si può partire dall’applicazione del principio di sussidiarietà, elencando alcuni compiti della politica e delle istituzioni che potrebbero essere più efficacemente svolti da un Governo europeo dell’Unione.   Il principio di Sussidiarietà, pur con un nome ostico e percepito come altisonante, è molto concreto. Propone, con assoluto buon senso, più da saggezza popolare che da speculazione filosofica, che gli individui e le comunità più piccole decidano e facciano autonomamente tutto ciò che sono in grado di gestire direttamente e si affidino alle aggregazioni superiori per tutto ciò di cui non si riescono a occupare efficacemente da soli. Il principio, dunque, pur essendo stato molto utilizzato nella rivendicazione delle autonomie, dice chiaramente che ci possono essere, e ci sono, materie per le quali è preferibile affidare la competenza alle istituzioni maggiori. In questa prospettiva dobbiamo chiederci se in Europa il livello nazionale sia il più idoneo in tutti gli ambiti dell’azione politica. La risposta è negativa.  Proviamo allora a fare un elenco, non esaustivo, di cosa sarebbe bene venisse deciso e fatto a livello dell’Unione.  In questo periodo si è molto parlato del sorpasso dell’economia cinese su quella statunitense, in termini di prodotto. Non si è per nulla sottolineato, tuttavia, che l’economia dell’Ue è ancora la più grande a livello globale, e quella dell’Eurozona comunque tra le prime tre. Non si tratta di una banale questione di classifiche, ma di pensare a come mettere a profitto questo peso economico.  Attribuire a un governo dell’Unione la rappresentanza esclusiva nelle sedi internazionali degli interessi economici e commerciali europei, ma anche di quelli geo-strategici, avrebbe un dividendo così grande da più che compensare le divergenze tra gli interessi nazionali. Inoltre scongiurerebbe il rischio che dal G7, passando per il G8 e il G20, si giunga ad un G2 Cina-Usa. Vi è poi la questione della politica fiscale. Le analisi delle principali istituzioni economiche internazionali, oltre che dei maggiori commentatori, concordano oggi sulla necessità di una politica fiscale espansiva nell’Eurozona. La divisione è solo tra chi propone una riduzione delle imposte e chi invece, come lo stesso Fmi, punterebbe più opportunamente su un piano di investimenti in infrastrutture. Gli interessi dei principali Paesi dell’Eurozona, anche se c’è chi si ostina a negarlo, sono convergenti. Il problema è che chi vorrebbe intervenire sulla leva fiscale non può farlo perché non ne ha i mezzi, date le condizioni dei bilanci pubblici, mentre chi potrebbe non vuole perché parte dei benefici finirebbe agli altri Paesi. Ora, se le decisioni di politica fiscale fossero prese da un Governo europeo e gravassero su un bilancio comune, in un’economia fortemente integrata l’effetto di spillover verrebbe in larga misura meno, cioè la maggior parte dei benefici dell’espansione fiscale resterebbero interni. Inoltre, come sottolineato da Paul Krugman in riferimento agli "stabilizzatori automatici", una politica anticiclica che gravasse su un bilancio comune consentirebbe di attingere a mezzi di cui i singoli Paesi in crisi non dispongono.  Il modo in cui l’Europa ha affrontato la crisi, soprattutto se paragonato a quanto fatto negli Usa, evidenzia altre ragioni a favore di un Governo europeo dotato di effettiva legittimazione politica, capace cioè di assumere una visione di insieme degli interessi dell’Unione. Si pensi agli ostacoli che hanno impedito necessari e tempestivi interventi per la mutualizzazione degli oneri. O a come le opinioni pubbliche nazionali abbiano giudicato frutto di un profondo deficit democratico ogni tentativo di intervento del livello europeo.  La stessa azione della Bce, pur efficace, è stata limitata dalla necessità di rispondere a una pluralità di 'interessi' nazionali. Un Governo europeo forte e elettoralmente responsabile avrebbe invece potuto garantire un quadro più favorevole da tutti questi punti di vista. Ci sono poi ambiti non economici di azione e decisione politica e istituzionale in cui i benefici di un Governo europeo sono evidenti: la sicurezza esterna e la gestione delle frontiere e dell’immigrazione; la sicurezza interna, che un sistema monocefalo di prevenzione e repressione garantirebbe più efficacemente contro le multinazionali del crimine; la politica estera, nella quale anche di recente i Paesi europei si sono mossi in maniera disordinata, incapaci di individuare un interesse comune.  Un Governo europeo forte, con competenze sulle questioni elencate, potrebbe produrre grandi benefici per i popoli europei. Sarebbero però benefici per domani, forse per dopodomani, mentre oggi gli incentivi dei singoli Paesi, e più ancora dei loro governi che non vogliono cedere potere, spingono in direzione opposta. Il conflitto tra incentivi individuali e di breve periodo e interessi comuni e di lungo periodo è tipico di molti problemi dell’azione sociale ed è emblematizzato con il linguaggio della teoria dei giochi nel 'dilemma del prigioniero'. È un conflitto da non sottovalutare e da non derubricare come frutto dell’irrazionalità: purtroppo la razionalità individuale può avere conseguenze nefaste sul bene comune. Sappiamo che per avere un esito cooperativo che produca il maggior benessere collettivo in tali contesti è necessario mettere a profitto la 'ripetizione del gioco'; è necessario guardare avanti, per trasformare il conflitto in un problema di affidamento reciproco. Ma per questo ci vuole visione, ci vuole coraggio per vincere la paura e tornare a fidarsi gli uni degli altri. Come seppero fare i padri della costruzione europea, che trovarono la forza della speranza nelle ferite aperte di due guerre europee ancora prima che mondiali. Ci vogliono leader che sappiano guidare e non farsi guidare dall’opinione pubblica e dai focus group, che sappiano riprendere in mano la bandiera dell’Europa contro la retorica del realismo disincantato, contro la rassegnazione ad un declino ineluttabile. C’è qualcuno che vuole raccogliere questa bandiera? *Preside della facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
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