Ecco chi fa di più per profughi e rifugiati
giovedì 20 giugno 2019

Il Rapporto annuale sui rifugiati nel mondo non è solo una collezione di dati. Curato dal’Alto Commissariato della Nazioni Unite (Acnur/ Unhcr) e in uscita ogni anno in occasione del 20 giugno, giornata mondiale dedicata appunto ai rifugiati, è una fonte di insegnamenti per opinioni pubbliche perlopiù prevenute o distratte. Il primo elemento è l’aumento dei rifugiati, malgrado l’apparente attenuazione dei conflitti in alcune aree calde del mondo, come l’Iraq: a fine 2018 erano 70,8 milioni, con 13,6 milioni di nuovi sfollati, 36mila al giorno, uno su due con meno di 18 anni. Erano 68,5 milioni l’anno scorso, quindi 2,3 milioni in più.

Uno dei maggiori successi culturali dei governi del Nord del mondo, e dei media che ne riflettono le posizioni, è quello di far credere che la grande massa delle persone in cerca di asilo prema alle porte dei Paesi sviluppati. In realtà 41,3 milioni sono sfollati interni, ossia hanno cercato scampo in regioni un po’ più sicure del loro stesso Paese. I rifugiati internazionali sono 25,9 milioni, e 3,5 milioni i richiedenti asilo. Anche questi fanno poca strada: 4 su 5 sono accolti nei Paesi confinanti. I migranti forzati in genere non si sono preparati a partire, spesso non dispongono dei mezzi per effettuare lunghi spostamenti, e molti sperano di tornare a casa non appena il pericolo sia passato. Il dato fondamentale è che nove dei dieci Paesi che accolgono il maggior numero dei rifugiati nel mondo sono Paesi in via di sviluppo e globalmente ospitano l’84% di questa umanità dolente, spesso senza disporre delle risorse per assicurare loro un minimo di protezione. La graduatoria vede al primo posto la Turchia (3,7 milioni, perlopiù siriani), seguita dal Pakistan (1,4 milioni, in gran parte afghani) e dall’Uganda (1,2 milioni, provenienti soprattutto da Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo).

L’unico Paese sviluppato che entra nella top ten dell’accoglienza anche quest’anno è la Germania. Per di più, 6,7 milioni, ossia un rifugiato su tre, sono ospitati nei Paesi meno sviluppati in assoluto, come Uganda, Bangladesh, Etiopia, Ciad, Yemen: Paesi che rappresentano il 13% della popolazione mondiale e appena l’1,25% dell’economia globale. In altri termini, il peso dell’accoglienza grava in modo sproporzionato su Paesi fragili e fragilissimi.

Per quanto riguarda i luoghi di origine e le ragioni delle migrazioni forzate, risalta il fatto che i rifugiati continuano a provenire principalmente da conflitti in atto nel Terzo Mondo, a cui peraltro gli interessi occidentali e di altri Paesi ricchi come l’Arabia Saudita non sono estranei. Due su tre vengono da cinque Paesi soltanto, nell’ordine Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar, Somalia. E qui l’insegnamento è che le guerre non sono mai soltanto locali: hanno effetti che si riverberano sui territori circostanti e in parte anche oltre. Vendere armi e suscitare conflitti non è solo un crimine per le vittime degli scontri, ma per le conseguenze che ha sulle popolazioni civili scacciate dalle loro case e per quelle chiamate ad accoglierli, conseguenze destinate a protrarsi spesso per anni.

Molto istruttivo è poi il dato relativo alla proporzione tra rifugiati e popolazione, un eloquente indicatore del carico sociale rappresentato dal fenomeno. In questo caso la graduatoria anche quest’anno colloca al primo posto il piccolo Libano, con 156 rifugiati ogni 1.000 abitanti. Segue la Giordania con 72, poi la Turchia con 45. Gli unici Paesi della Ue tra i primi dieci in questo caso sono la Svezia, con 25, e Malta, con 20.

A questo punto occorre domandarsi come si colloca l’Italia. A dispetto delle narrative enfatiche e vittimistiche, la risposta è: lontano dalle prime posizioni. Il rapporto certifica la presenza in Italia di 295.599 richiedenti asilo e rifugiati a fine 2018, pari a circa 5 persone su 1.000 residenti. Per offrire qualche termine di paragone, non ci precede solo la Germania (1,1 milioni, più 300mila richiedenti asilo), ma anche la Francia (459mila) e la Svezia (318mila). E, in proporzione alla popolazione, sono davanti a noi parecchi altri Stati.

A questa analisi vorrei aggiungere una testimonianza personale. La mia prima figlia da quattro anni lavora come responsabile di una Ong nel Kurdistan iracheno, dove si occupa di bambini e ragazzi rifugiati. Quando ascolto i lamenti sull’accoglienza dei rifugiati in Italia, non posso non pensare alle distese di tende e di baracche sovraffollate, lontane da tutto, che mi ha fatto visitare.

Sociologo, Università di Milano e Cnel

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