Transizione ecologica, tasse, equità: e comunque pagheremo
sabato 23 novembre 2019

Il dibattito sulla plastic tax si riaccende con l’avvio dell’iter parlamentare della manovra economico-finanziaria per il 2020 e ci pone una domanda di fondo: chi sta pagando (e chi deve pagare) tra Stato, cittadini e imprese la transizione ecologica? Un prezzo del biglietto per il futuro che ormai sappiamo essere necessario. Infatti, nonostante l’affiorare sporadico di istanze negazioniste, la quasi totalità dei cittadini europei e italiani non ha dubbi sull’emergenza climatica. Un’indagine realizzata già nel 2017 in 23 Paesi (European Social Survey) consultando 44.387 persone sottolinea come solo il 2,2% degli intervistati sul totale del campione (lo 0,92% in Italia) nega decisamente il cambiamento climatico e soltanto il 2,5% è convinto o che non ci sia o che dipenda interamente da cause naturali (1,52% in Italia).

È probabile che l’intensificazione della frequenza degli allarmi meteo abbia ulteriormente ridotto queste percentuali negli ultimi due anni. Una delle vie principali per favorire la transizione è una combinazione di tasse su prodotti o processi produttivi più inquinanti accompagnata da incentivi verso quelli più ecologici. Le vicende dell’ecotassa sulle automobili in Francia ci hanno insegnato che il meccanismo non può non tener conto di elementi di progressività fiscale per evitare di mettere in difficoltà i ceti più deboli. L’ecotassa del Governo gialloverde ha compreso questa lezione, evitando di inasprire il prelievo fiscale sui motori più inquinanti di auto a bassa cilindrata.

Ma cosa pensa l’opinione pubblica delle ecotasse? I dati della indagine europea già citata ci aiutano a cogliere l’asimmetria di consenso tra l’incentivo fiscale alle filiere più sostenibili e l’inasprimento delle tasse su ciò che inquina. Se il 75,6% degli intervistati è a favore degli incentivi ecologici in Europa (il 68% in Italia), la percentuale dei favorevoli all’inasprimento fiscale su prodotti e processi meno sostenibili crolla al 30,3% in Europa (al 24,4% in Italia). In sintesi l’opinione pubblica europea è consapevole del problema e della gravità del fenomeno (solo il 5,84% in Europa e l’1,75% in Italia si dichiara per nulla preoccupato) ma di fatto, con quest’asimmetria, dimostra di attendersi che siano i Governi a pagare la transizione. In Italia, nel dibattito sulla plastic tax tra le attuali forze di maggioranza, la questione si ripropone. Il progetto iniziale del Governo giallorosso fissa una tassa di un euro per chilogrammo di materia plastica contenuta nell’involucro del prodotto prevedendo di raccogliere da essa 1,1 miliardi di euro.

La misura è accompagnata da una detrazione del 10% sugli investimenti delle imprese in contenitori compostabili (che si somma a detrazioni sull’efficientamento energetico degli edifici e sull’acquisto di elettrodomestici ecologici per definire il conto totale pagato dal Governo in materia di transizione ecologica nel Def). La tassa italiana anticipa una misura ben più drastica dell’Unione Europea che impegna gli Stati nazionali a recepire entro luglio 2021 una direttiva per il divieto di alcuni prodotti monouso in plastica (tra di essi posate, piatti, cannucce, bastoncini cotonati, agitatori per bevande).

Chi pagherà dunque la transizione ecologica? Sicuramente le imprese che già versano oggi al Conai un contributo di 369 euro a tonnellata per la raccolta e il riciclo della plastica e che, se vogliono sopravvivere ed essere competitive nel prossimo futuro, si stanno impegnando indipendentemente dalla plastic tax a rendere le loro produzioni più ecologiche. Quanto pagheranno i cittadini? I calcoli sull’impatto della plastic tax sui consumatori – si parla di 100 euro all’anno – dipendono in realtà dal grado di competitività dei diversi settori. La teoria economica ci insegna che in caso di concorrenza 'perfetta' la tassa è interamente pagata dalle imprese impegnate tra loro in una guerra di prezzi mentre in caso di monopolio accade esattamente l’opposto e la tassa è traslata interamente sui consumatori. Essendo i settori in questione non caratterizzati da monopolio il passaggio dell’onere sui consumatori sarà limitato.

Nel dibattito parlamentare si tratterà di stabilire dunque se e quanto ridurre il carico sulle imprese e sui consumatori per metterlo sulle spalle dello Stato rispetto alla proposta iniziale. Nel frattempo, però, è bene sottolineare che il cambiamento climatico non è solo preoccupazione di rischi futuri, ma conto salato che iniziamo già oggi a pagare (non solo quando le calamità si materializzano come in questi giorni a Venezia).

Uno studio recentissimo pubblicato sul Journal of Financial Economics sottolinea come il valore degli immobili esposti al rischio di innalzamento del livello del mare sia diminuito in media del 7 percento. L’esposizione al rischio del riscaldamento climatico (e, presumiamo, del dissesto idrogeologico) comincia a essere incorporata già oggi nei prezzi di mercato degli immobili e dunque ad incidere sulla ricchezza dei cittadini. Ogni squilibrio si paga in molti modi, a che se a volte non ce ne rendiamo immediatamente conto.

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