mercoledì 27 febbraio 2013
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​Il risultato per molti versi inatteso delle elezioni politiche ha prodotto almeno quattro conseguenze non prive di rilievo sul funzionamento del sistema istituzionale italiano.Il primo dato riguarda la doppia scadenza in calendario nelle prossime settimane: la formazione del nuovo governo – subito dopo l’elezione dei presidenti delle due Camere – e l’elezione del presidente della Repubblica. Se le elezioni hanno reso assai più complicata del previsto la prima scadenza, esse hanno conferito una rilevanza particolare alla seconda. È infatti probabile che il prossimo Governo e il prossimo Parlamento abbiano una durata relativamente ridotta – almeno stando alle ipotesi oggi circolanti – e che si tornerà alle urne nell’arco di un anno o due. Il capo dello Stato che sarà eletto dal 15 aprile in poi avrà invece sette anni garantiti di permanenza al Quirinale (un tempo lunghissimo per la politica italiana). E sia in presenza dell’attuale Parlamento "zoppo" (con una maggioranza in una sola Camera), sia in vista degli equilibri della legislatura successiva, il ruolo del prossimo presidente della Repubblica sarà cruciale. La sua influenza sugli assetti politici potrebbe essere addirittura superiore a quella – già notevole – esercitata da Napolitano. Ne segue che la scelta del nuovo Capo dello Stato non sarà meno importante della formazione del nuovo esecutivo.La seconda conseguenza delle elezioni sarà l’esistenza di una maggioranza assoluta alla Camera per la coalizione di centrosinistra e una maggioranza solo relativa al Senato. Ciò apre la prospettiva di un fenomeno noto a molti regimi parlamentari (ad esempio nel nord Europa, in Canada, in Spagna): un governo di minoranza, tollerato dalle opposizioni o da una parte di esse. Ma tale fenomeno potrebbe assumere un volto singolare in Italia, data la natura problematica del Movimento 5 Stelle, che al momento si configura come un vero e proprio "oggetto politico non identificato", il quale combina una variante estrema di leaderismo con la rivendicazione dell’autonomia dei singoli parlamentari e della libertà di voto caso per caso. Vi si potrebbe vedere quasi una reincarnazione della funzione originaria del "libero mandato parlamentare" (stile XIX secolo), rinato sulle ceneri del parlamentarismo dei partiti (proprio del XX secolo). Ma fino a che punto potrà spingersi una evoluzione simile? E, soprattutto, potrà essa manifestarsi in un’uscita dall’aula nel voto di fiducia iniziale, consentendo la nascita di un governo di minoranza (al Senato) a guida Pd?Il fatto che il governo debba godere della fiducia anche del Senato è il terzo dato da sottolineare: e si tratta di una anomalia squisitamente italiana, dato che in tutti gli altri regimi parlamentari bicamerali oggi esistenti (salvo la Romania) il governo deve godere della fiducia della sola Camera bassa. Questa, però, può essere una occasione per riflettere in maniera intelligente sulla riforma del Parlamento e sulla tanto sbandierata riduzione del numero dei parlamentari. La quale, piuttosto che come una riduzione alla metà delle due assemblee, dovrebbe forse essere impostata riducendo drasticamente le dimensioni del Senato e trasformandolo in una Camera delle Regioni di circa 100 componenti, con poteri di controllo ma senza rapporto fiduciario col Governo. Va da sé che una riforma di questo tipo sarebbe operativa solo in futuro, ma la situazione presente potrebbe indurre a riflettere su di essa.Infine vi è la madre di tutte le questioni: la riforma della legge elettorale, problema aperto ormai da oltre 20 anni. I deficit dell’attuale legge sono arcinoti, ma trovare una soluzione alternativa si è rivelato impresa assai complessa e sarebbe interessante sapere qualcosa di più sulle idee del M5S su questo punto. Un ritorno ai collegi uninominali con una forte quota regionale e una seria clausola di sbarramento, assieme all’esclusione del Senato dalla fiducia, è considerata la soluzione probabilmente meno squilibrata. Ma su questo punto sarebbe bene prima di tutto cominciare a definire le proposte. E non sarebbe affatto male se il dibattito sulle riforme si riaprisse con una innovazione di metodo. Magari seguendo il modello del Comitato Balladur che preparò la riforma del 2008 in Francia, a cominciare da un lavoro di istruttoria tecnica, sia pure sulla base di un chiaro mandato politico. Potrebbe essere un modo per non cadere nei tatticismi che fecero naufragare le riforme nella legislatura appena conclusasi.
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