venerdì 28 agosto 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Una delle più citate e riprese catechesi tenute nella scorsa primavera da papa Francesco in piazza San Pietro intercetta e invita ad affrontare con straordinaria lucidità uno dei nodi antropologici più intrecciati e complessi della postmodernità: quello della 'emancipazione interrotta' dell’universo femminile. In effetti, malgrado le nuove generazioni (soprattutto occidentali) pensino il contrario, le donne non hanno affatto pari dignità rispetto agli uomini. O meglio, la pari dignità è affermata sul piano teorico, ma negata nei fatti.  Questo avviene anche nel nostro civilissimo (?) Paese, e vorrei restare, per una riflessione dotata di senso, alla situazione in Italia, giacché se guardiamo al mondo le condizioni variano troppo, e si rischierebbe la genericità. Non hanno pari dignità nel lavoro, dove la pratica del differenziale retributivo (se un uomo e una donna svolgono la stessa funzione in un’impresa la donna deve accontentarsi di una retribuzione inferiore all’uomo) è un’amara e sottovalutata realtà. Una differenza per la verità inferiore rispetto a quella europea, ma che va saputa leggere e interpretare. In poche parole le donne che svolgono certe funzioni di livello superiore vengono inquadrate in un livello inferiore e così non emerge la sottoretribuzione. Chissà quante lettrici si riconosceranno in questa situazione… Ma le donne non hanno ancora pari dignità anche in famiglia, dove gli uomini collaborativi – malgrado diversi tra loro comincino a occuparsi della casa e della cura dei figli – restano comunque ancora una minoranza, lasciando le donne con il sovraccarico di 'lavoro fuori casa lavoro dentro casa'. E che questo sia l’effetto di un radicato convincimento lo si vede anche negli atteggiamenti minuti della quotidianità: se un uomo è molto disordinato tutti sorridono con compiacimento come si fa con i bambini, se una donna è molto disordinata viene vista come una persona strana. Ma, soprattutto, donne e uomini non godono di pari dignità nella cultura collettiva, nella cultura di massa, in cui, nella versione più leggera, l’immagine femminile è un elemento esclusivamente decorativo, nella versione più trash è un oggetto da consumare e/o violare.  Su questa tematica ha fatto il punto per l’Unione Europea il Censis, con il Libro Bianco Women and media in Europe ('Donne e media in Europa'), in cui si evidenzia, tra l’altro, come alcuni Paesi europei vantino codici di regolamentazione sulla rappresentazione dell’immagine femminile rigorosi, contrariamente al nostro Paese, dove i tentativi portati avanti di un Codice di autoregolamentazione promosso dal governo Monti si sono arenati di fronte al 'niet' dei network commerciali. E dove l’impegno generoso di una folta rappresentanza di donne dei vari ambienti della società civile riunite da Gabriella Cims nell’Appello Donne e Media ha prodotto la prima riforma in Rete riguardante le donne, attraverso l’inserimento di 13 articoli nell’ultimo contratto di servizio Stato-Rai a tutela dell’immagine femminile. Risultato che però è stato in parte vanificato da un’applicazione non sempre coerente da parte della Rai. Quest’ultimo aspetto, quello della rappresentazione dell’immagine femminile nei media, è assai sottovalutato, considerato un tema di interesse accademico, di nicchia, o per poche ricercatrici (sociologhe, antropologhe, psicologhe) 'femministe'. E invece si tratta di una pietra angolare della antropologia in cui siamo immersi, una cultura globale in cui al 'femminile' non è dato contare, esprimersi, conformare lo sviluppo, portare il suo bagaglio di sensibilità, esperienze esistenziali, intelligenze e competenze. Al massimo è 'stato dato' alle donne di emanciparsi nei costumi sessuali, con un doppio salto mortale che dai conformismi degli anni Cinquanta è arrivato alla contemporanea disinibizione sfrontata e miserevole di troppe, alla mercificazione di sé. Troppe, sì (una minoranza, ma sempre eccessiva visto che si parla di dignità).  Perché troppe donne hanno frainteso il significato della parola 'emancipazione', complici i modelli martellanti che vengono da pubblicità, programmi televisivi, stampa di quart’ordine (avete mai preso in mano un settimanale di gossip?), rincorrendo una libertà povera fatta di trasgressioni da quattro soldi. Un salto che ha messo all’angolo (per responsabilità degli uomini e delle donne) quello che era il portato più autentico della crescita della consapevolezza femminile nella seconda metà del secolo scorso: la crescita nell’istruzione, nella professionalità, nel bagaglio dei saperi, nelle responsabilità sociali. Papa Francesco, con l’intuizione sicura che non lo abbandona, ha compreso che molte donne sono disorientate perché enormemente deluse, e molto respinte, da una società che non ha accompagnato e sostenuto il loro legittimo percorso verso la costruzione di una felicità familiare, verso il riconoscimento sociale del contributo che danno nei diversi ambiti di lavoro fuori e dentro casa, e ha affrontato il male alla radice. Così, nel suo discorso (che è riuscito già a stimolare un dibattito che languiva da tempo) ha toccato i tanti aspetti che hanno contribuito a creare la situazione, evidenziandone la radice storica, antropologica, già presente in qualche modo nello 'scaricabarile' di Adamo: «È stata la donna…». Una colpevolizzazione che ha accompagnato le donne come un macigno, disperdendo energie, forze, carichi di bene. Oggi le analisi sociologiche più avvertite ci dicono che più donne in posizioni di responsabilità significano più sviluppo socioeconomico da una parte e al tempo stesso più attenzione alla umanizzazione della società. Papa Francesco sta indicando, ancora una volta, una prospettiva di crescita.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: