giovedì 23 luglio 2015
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Il parroco è un ragazzone alto e ben piantato, la parlata mite nella dolce cadenza trentina. Sempre in movimento: svelti i passi sulle scale della antica canonica di Denno, dove abita, e sempre in giro per la Val di Non con la sua vecchia Punto grigia metallizzata. Don Alessio Pellegrin, 38 anni, è da cinque anni il parroco della Unità pastorale Cristo Salvatore, tredici piccole comunità a nord di Trento, sotto le pendici del Brenta. Le colline sono coperte dai meleti su cui si regge l’economia della valle; qui l’agricoltura tiene, e i paesi, non invasi dal turismo, conservano un candore d’altri tempi nelle piccole pievi, nei balconi fioriti, nel silenzio. Forse anche troppo silenzio: i bambini sono pochi, due abitanti su tre sono anziani.   Denno, Campodenno, Cunevo, Dercolo, Flavon, Lover, Quetta, Sporminore, Termon, Terres, Toss, Vigo di Ton e Masi di Vigo. Sembra un Rosario, a pronunciarlo, l’elenco delle parrocchie di don Alessio. 6.000 fedeli in tutto; e quando le ultime tre comunità si sono aggiunte alle dieci iniziali un giornale locale ha titolato: 'Il parroco ha fatto tredici'. Dunque ecco don Pellegrin, in una qualsiasi mattina feriale, che inizia la sua giornata. Non da prete 'di strada' nell’accezione comune del termine, ma da prete sempre 'per' strada, sempre in cammino fra la sua gente, fra queste montagne. Sono le sette e trenta, da Denno si parte per Campodenno, 1.465 anime, stamattina la Messa si celebra lì. La vecchia Punto si arrampica per le stradine, il Rosario blu appeso sopra al cruscotto oscilla fortemente alle curve, prese con disinvolta abitudine. La chiesetta di Campodenno è piccola, accanto ha il cimitero, fiorito come un giardino. Don Pellegrin entra e si inginocchia davanti a un Cristo ligneo. Resta un quarto d’ora in preghiera, a capo chino davanti al breviario. Con tante cose da fare, sembra che quei minuti siano un momento salvo, prezioso, intoccabile. Poi le campane chiamano a Messa, i rintocchi si disperdono nell’aria tersa della mattina d’estate. Una decina di donne arriva alla spicciolata. «Buongiorno, signor curato», dicono, e ti meraviglia ritrovare questa espressione antica.  È San Giovanni, oggi. Il parroco dal pulpito: «Dio sceglie strumenti deboli, per farsi ascoltare». Parla del silenzio di Dio, e della povertà dei suoi segni. Poche parole chiare, quattro minuti di omelia. Poi, un caffè al bar del paese.  Non si fa in tempo a ordinarlo che entra il sindaco, saluta affabilmente, e offre lui. C’è anche don Luigi Franzoi, 87 anni, che ha concelebrato la Messa. È uno dei tre sacerdoti anziani che la domenica aiutano Pellegrin e altri religiosi nel dire Messa nella valle. Franzoi ha passato trent’anni in Germania, al seguito degli immigrati italiani. Non è preoccupato del drastico calo delle vocazioni che spopola queste canoniche.  Nemmeno Pellegrin lo è: «Secoli fa – dice – qui c’erano due o tre pievi, e la gente veniva dalle borgate lontane per battezzare i figli. In fondo, si torna alle origini».  L’anziano don Luigi, non appena don Alessio si volta, ne elenca doti sulle dita di una mano: «Ha la giovinezza, la salute, la pazienza, è buono… Qui gli vogliono bene».   Don Alessio è il nono e ultimo figlio di una famiglia di Vigo di Fassa. Il papà aveva una macelleria, in casa si parlava ladino. Il ragazzo fa il chierichetto, cresce fra chiesa e oratorio. Entra in seminario, ne esce per maturare una certezza, ritorna, è ordinato a 31 anni. Forse immaginava una vita tranquilla come quella del suo vecchio parroco di Vigo, che gli ha fatto desiderare d’esser prete. Invece, il tempo scorre anche tra queste montagne. I sacerdoti invecchiano, e le ordinazioni sono molto poche. È necessario accorpare le comunità in Unità pastorali. La gente un po’ ci soffre, ognuno è abituato alla sua chiesa, e al suo prete. Cinque anni fa don Alessio si ritrova con uno sciame di parrocchie sparse nella vallata. Dal belvedere di Monti di Vigo stamattina le indica a una a una per nome, come un pastore con le sue pecore: 'Denno, Lover, Tos, Sporminore...' Grappoli di case sommerse dai frutteti dove le mele vanno maturando. Sì, il tempo scorre anche in questo paradiso, ma sembra girare più adagio. Sul giornale locale, Roma e Lampedusa paiono così lontane: il titolo più grande è per una donna che è morta cadendo dalla scala, mentre raccoglieva ciliegie. Matrimoni gay, gender, sono espressioni con cui da queste parti ancora non si ha confidenza. Con il dolore, invece, sì. I dolori di sempre, dice il parroco: malattie, solitudine, liti in famiglia, lutti. In un anno si celebrano 15 matrimoni, 60 battesimi e 65 funerali. In linea con la caduta demografica italiana.  Nei mesi della raccolta delle mele arrivano i braccianti dalla Polonia. Lavorano, dormono nelle cascine, vanno anche a messa. Dei suoi 6.000 parrocchiani, almeno 1.500 don Alessio li chiama per nome. Ci vive in mezzo, e spesso è a cena da loro, la sera. Il parroco è una buona forchetta, onora ogni pietanza, e sono cose che la gente apprezza. Non deve essere stato facile, però, mettere d’accordo 13 campanili... Pellegrin: «Abbiamo cominciato a fare delle cose insieme. Cene, gite in montagna. Si impara a stare, e a lavorare, gli uni con gli altri. Chi fa la catechista, chi fa l’economo. Chi è più bravo aiuta gli altri». Pellegrin ha grande capacita di delegare e di mediare, evidentemente; ma soprattutto di quest’uomo ti colpisce l’espressione mansueta, la mitezza. Che sia questa la sua forza? L’opera non vistosa ma tenace di una faccia buona.   Dai suoi altari, la domenica, nelle tre Messe che celebra, don Alessio insiste soprattutto su due punti: Cristo c’entra con la vita, Cristo è fedele. «Io – dice – questo lo sperimento su di me, quando mi pare di non farcela a affrontare ogni cosa, e allora affido tutto a Lui.  Quando magari avverto un momento di solitudine, e proprio quel mattino incontro un parrocchiano, che mi dice una parola di stima. Poi, la Eucarestia è nella mia vita un elemento fondante». Si può guardare in tanti modi alla crisi delle vocazioni che spopola le canoniche.  Pellegrin cita una frase del cardinale belga Danneels, che parla di una nuova povertà 'pasquale'. Di una Chiesa che, spogliata del suo potere e della sua forza numerica, riscopre in Cristo l’essenziale. «I Salmi più belli nell’Antico Testamento sono proprio quelli del tempo della povertà, e dell’esilio», aggiunge don Alessio.  E così ogni mattina all’alba, nella canonica di Denno, il parroco apre l’agenda: dove si va a dir Messa oggi? Strade coperte di neve o rallentate da trattori carichi di frutta, porte di piccole pievi schiuse da vecchi sacrestani. Quel quarto d’ora in ginocchio, in silenzio davanti al Crocefisso. Che cosa, ti domandi, ti ricorda questa campagna, questi borghi di poche anime dove un prete passa a benedire, e a trovare i malati? Ti viene in mente la Francia ottocentesca e rurale del curato d’Ars, e i registri di quella galassia di chiesette su cui ritorna, per decenni, la firma di Jean Vianney, come se il santo curato avesse il dono dell’ubiquità. Oggi, certo, un parroco di montagna gira in auto, come don Alessio. Avanti e indietro, fino alle chiese più lontane. Centomila chilometri avanti e indietro per queste stradine, in 5 anni, con la sua Punto grigia. E vedi come la gente per strada si ferma a salutare, e sorride. Si vede, che gli vogliono bene. Padre, domandi, ma a lei Papa Francesco con il suo insistere sull’andare verso le periferie, sulla 'Chiesa in uscita', ha cambiato la prospettiva sul suo lavoro? Don Pellegrin riflette, poi: «No, come i miei superiori anche io ero sulla linea della accoglienza. Il Papa ci ha rafforzato in questo sguardo».   Cosa vuol dire per lei, 'accoglienza'? «Vuol dire che come cristiani, prima di qualsiasi giudizio, dobbiamo essere capaci di abbracciare chiunque ci si presenta davanti». Limpida sintesi di un pastore di montagna, che alle dispute teologiche preferisce il voler bene ai suoi. Lasci la Val di Non con i suoi borghi sparsi fra i meleti, le chiese bianche col campanile che indica il cielo. La storia scorre, e però continua, in questa valle trentina, nella faccia di un prete.
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