Dividendi fossili della guerra, il verde della pace
sabato 4 marzo 2023

Caro direttore,
la guerra in Ucraina ha fatto emergere, sin dal suo inizio, l’importanza geopolitica delle esportazioni di gas e petrolio che, per molti mesi, hanno allo stesso tempo aumentato le entrate della Russia e appesantito la bolletta energetica dei Paesi più dipendenti da questo tipo di importazioni, come Italia e Germania. Se la crisi è stata gestita facendo più debito pubblico, parte dei costi ha invece finito per gravare direttamente su cittadini e imprese, con il caro energia che ha contribuito all’aumento dell’inflazione. Mentre per molti questo vuol dire un impoverimento del proprio tenore di vita, per alcuni settori il 2022 è stato invece un anno di “dividendi di guerra”. A partire dalle grandi aziende petrolifere, che hanno goduto di un’esplosione degli utili. Le cinque più importanti multinazionali del gas e del petrolio (Chevron, ExxonMobil, Shell, BP, TotalEnergies) hanno infatti registrato un totale di 192 miliardi di dollari di profitti di cui, secondo Global Witness, 134 miliardi di extraprofitti, con un calcolo effettuato secondo i parametri europei, prendendo in considerazione la parte che supera il 20% rispetto alla media degli ultimi cinque anni.

Anche Eni ha registrato un utile operativo record pari a 20,4 miliardi di dollari, più del doppio rispetto al 2021. In termini di extraprofitti 12,5 miliardi di euro. Diversamente da alcune Oil Ma-jors, Eni continua ancora a investire in ricerca di nuovi giacimenti e, nel complesso, i suoi investimenti continuano a concentrarsi in gran parte sulle fonti fossili, nel riacquisto di proprie azioni e solo marginalmente nelle fonti rinnovabili. Non solo, dunque, il “dividendo di guerra” non viene tassato più di tanto, ma la direzione degli investimenti insiste sulle fonti fossili invece di puntare sulle rinnovabili.

Le uniche fonti che aiutano a contrastare la crisi climatica e riducono la dipendenza dalle importazioni di gas e petrolio da altri Paesi. Se in Italia la crescita delle rinnovabili stenta, a livello internazionale la guerra in Ucraina ha invece spinto molti Paesi a investire massicciamente su eolico e solare e, dunque in prospettiva, a ridurre strutturalmente la dipendenza dal gas. Può sembrare un paradosso: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, uno dei maggiori esportatori di gas e petrolio, innesca una reazione che tende a ridurre il peso (anche geopolitico) di quelle stesse fonti fossili.

Un altro settore che beneficia della guerra in corso è quello della produzione di armi, con le spese militari in crescita anche in Italia: quest'anno il budget della difesa supererà i 27 miliardi di euro. Una buona parte delle missioni militari italiane all’estero è, tra l’altro, legata proprio alla protezione di infrastrutture fossili. E se non faremo sul serio nella transizione verso le rinnovabili, come fanno maggiormente temere le impasse registrate anche nelle ultime ore nella Ue, situazione peggiorerà: tutte le aree di produzione presentano rischi geopolitici molto seri.

È quel che potrebbe succedere, ad esempio, se si concretizzasse il progetto EastMed, gasdotto che porterebbe gas in Europa dai giacimenti offshore in acque israeliane. Come denunciato da un rapporto di Greenpeace, oltre ai diversi rischi di conflitto lungo il suo tracciato, questa nuova infrastruttura fossile implicherebbe anche grandi emissioni di gas serra. Siamo in una fase storica di passaggio: dal secolo del petrolio al secolo delle rinnovabili. Transizione ancora troppo lenta per fermare la crisi climatica, ma che delinea le strategie dei grandi Paesi.

Il rischio di risolvere questo cambio d’epoca, come spesso avvenuto, con un conflitto globale è però sotto gli occhi di tutti. In tal senso, l’Accordo di Parigi, preceduto da un accordo di cooperazione tecnologica Usa-Cina, creava anche il quadro istituzionale globale per gestire in modo negoziale questo cruciale passaggio. Guterres, segretario Onu, ha del resto dichiarato che «se agiamo insieme, la transizione verso le rinnovabili è il progetto di pace per il Ventunesimo secolo»: in un quadro di cooperazione si può promuovere la pace e la lotta alla crisi climatica ed è in tal senso che Greenpeace porta avanti le sue campagne. Riprendere il dialogo Est-Ovest è oggi ancor più necessario: per disinnescare il rischio di espansione del conflitto e per dare una speranza alla lotta alla crisi climatica. Battaglia complessa da portare avanti e che diventerebbe impossibile in un mondo che pare dirigersi verso l’espansione dei conflitti.

Direttore Greenpeace Italia

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