mercoledì 20 marzo 2019
Un lettore e medico ragiona sulla possibilità di indurre il blocco ormonale in una giovane persona attraverso il cosiddetto «farmaco gender». E invita tutti a non forzare in questa direzione
«Farmaco gender»: tra buon senso e rischi ideologici
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Caro direttore,
chiunque di noi avesse un figlio con un problema medico importante per cui sia disponibile una terapia efficace nel 89% dei casi, e decidesse di non tentare di applicarla, sarebbe privo di buon senso, e la sua scelta fortemente discutibile moralmente e anche legalmente. Non sono mancati casi di cronaca di genitori che hanno di fatto impedito la guarigione dei figli per patologie gravi, ma suscettibili di trattamento efficace. Su “Avvenire” del 13 marzo 2019 in un’ampia analisi di Luciano Moia – intitolata «Farmaco gender, servono chiarezza e misericordia» – si sono affrontate di nuovo le ipotesi di trattamento della disforia di genere in età pre-pubere, con evidente riferimento, senza citazione, ai dati del DSM-5, che riportano una spontanea remissione del fenomeno nel 98% dei soggetti disforici di sesso maschile e nel 89% di quelle di sesso femmine (quasi il 90% in entrambi i sessi). Il blocco farmacologico della pubertà sarebbe riservato a quei “rarissimi casi” in cui la sofferenza legata alla diversa percezione di sé comportasse il rischio di gravi disturbi comportamentali fino al suicidio, il tutto – cito ancora l’articolo in questione – in attesa della possibilità che «al termine dell’adolescenza il problema vada stemperandosi » , cioè attendendo una risoluzione spontanea mentre si dilaziona artificialmente l’evento risolutivo, cioè la pubertà, in assenza della quale il termine dell’adolescenza è un momento non definibile. Una situazione paragonabile nel paradosso, sia pure in ambito diverso, è la certificazione necessaria all’aborto, che viene spesso rilasciata a fronte di “grave rischio psichico” per la salute della madre nel caso di proseguimento della gravidanza, come dire che essendo prevedibile (ad esempio) una grave depressione post partum con possibile infanticidio, si decide di provocare deliberatamente la morte del feto e le incomprimibili sequele psicologiche dell’aborto sulla madre, cioè un danno certo e grave a fronte di un evento possibile che si vorrebbe evitare. Nessuno nega la necessità del sostegno psicologico, e anzi gli specialisti che intervengono su altri aspetti della personalità a causa di patologie associate, senza affrontare direttamente i problemi della sfera sessuale, assistono spesso a una inaspettata variazione dell’orientamento della libido in senso concorde al sesso biologico. Ma riguardo all’aspetto endocrino o chirurgico, il parere di illustri colleghi di società scientifiche di cui io stesso ho fatto parte, non possono eliminare il fatto che nessuno studio prospettico controllato è possibile per avvalorare questo particolare impiego della triptorelina, essendo inaccettabile prolungare i gravi effetti collaterali del blocco ormonale, magari fino alla maggiore età o fino alla fase chirurgica, (che certo non arriverà il giorno dopo), sui cui risultati è lecito esprimere forti dubbi. Chiarezza e misericordia, d’accordo, ma con una generosa dose di buon senso.

Pier Giorgio Tacchi chirurgo endocrinologo

Caro dottor Tacchi,
il Direttore mi passa la sua lettera e molto volentieri dialogo con lei, riprendendo una questione di grande complessità che inevitabilmente divide per il suo portato simbolico che investe la totalità della persona. E quando, come in questo caso, le persone di cui si parla sono adolescenti o preadolescenti con patologie riferite all’identità di genere, e quindi dense di riferimenti alla dimensione della sessualità e della generazione, le attenzioni vanno raddoppiate, anzi decuplicate. E forse non basterà ancora. Lei invoca, come criterio per valutare questi disturbi – disforie di genere – insieme a misericordia e chiarezza, anche una «generosa dose di buon senso». Siamo perfettamente d’accordo. Tutto quanto scritto su “Avvenire” va proprio in questa direzione. Non abbiamo fatto altro che tentare di fare sintesi su una questione che vede diviso lo stesso mondo scientifico, ma su cui nessuno – come abbiamo sottolineato – possiede la ricetta risolutiva. Né i medici, né gli psicologi, né i moralisti, né i teologi moralisti visto che la dottrina cattolica non esprime posizioni definitive né sulla possibilità di bloccare lo sviluppo puberale di un adolescente, né sull’eventuale intervento chirurgico di riassegnazione sessuale (che però, come lei sa bene, non è l’esito scontato e definitivo della terapia farmacologica).
Ora, visto che su un problema così specifico, così “tecnico” e così legato allo sviluppo della ricerca sarebbe sbagliato abbracciare posizioni irremovibili e definite per sempre, non ci sogneremmo mai di distribuire patenti di scientificità o di eticità a questo o a quell’approccio terapeutico. E nessuno, a nessun livello, ci ha chiesto di “promuovere” o di “bocciare” l’uso della triptorelina. Lo diciamo con la fronte alta e con la coscienza limpida: nessuno. Valutiamo le diverse posizioni, ascoltiamo il parere degli esperti e cerchiamo di fare «con buon senso», come anche lei auspica, il nostro lavoro di cronisti raccontando onestamente quanto via via emerge dal dibattito scientifico, antropologico e teologico. Non abbiamo motivo di fare scelte diverse, e non ci interessa (mentre ci interessa esprimere e motivare preoccupazioni per l’uso ideologico che da diverse parti si fa della questione). Ecco perché nell’articolo a cui lei fa riferimento abbiamo semplicemente messo in fila le varie posizioni. Esistono casi, sia pure rarissimi, di preadolescenti per cui la disforia di genere si traduce in disagio tanto profondo da scatenare disperazione, tentativi di automutilazioni e perfino di suicidio? Esistono, purtroppo. E alcuni esperti non escludono in queste circostanze il ricorso alla triptorelina. Almeno quando la psicoterapia mostra di non poter avere effetti positivi e quando c’è il ragionevole sospetto che l’adolescente possa commettere atti irreparabili. Ma solo dopo una valutazione interdisciplinare, caso per caso, con prudenza e attenzione. Nei centri più seri – e ne esistono – questa valutazione è presa insieme da psichiatri, psicologici, endocrinologi, sessuologi, pediatri e altri specialisti solo dopo aver sottoposto la valutazione al comitato di bioetica. Ma, come abbiamo più volte scritto, esistono anche altri esperti, ugualmente degni di considerazione, che ritengono la terapia farmacologica inutile e dannosa per alcuni tra i motivi che anche lei ha ricordato. Questi esperti suggeriscono strade diverse per affrontare i problemi della disforia di genere e non abbiamo motivo di ritenere che il loro approccio sia peggiore. Anche perché le pochissime ricerche scientifiche, su un fronte e sull’altro, non permettono conclusioni di alcun tipo.
Il “via libera” dell’Aifa all’inserimento della triptorelina nei farmaci garantiti dal Servizio sanitario nazionale ha acceso in queste settimane il dibattito sulla questione della disforia di genere e della transessualità. Forse il problema consiste proprio in questa decisione che introduce nella farmacopea una terapia tutt’altro che collaudata. Più cautela sarebbe stata d’obbligo. Ma va detto che il farmaco è usato “off label” da molti anni nella quasi totale indifferenza dei non addetti ai lavori. Eppure, anche gli anni scorsi, quando nessuno se ne curava, c’erano ragazzi/e che soffrivano per questi problemi e c’erano famiglie sconvolte dall’irrompere della disforia di genere. Naturalmente la triptorelina non era prima e non deve diventare adesso – nonostante il “timbro” dell’Agenzia italiana del farmaco – la “soluzione” per tutti i problemi legati all’identità di genere. Era un farmaco considerato “eccezionale” prima e sarebbe gravissimo diventasse “ordinario” adesso. E, come abbiamo scritto (ma è il caso di ripeterlo), sarebbe inaccettabile che venisse usato per aprire la strada a strumentalizzazioni ideologiche pro gender. Su tutti gli altri fronti – medico, antropologico, teologico, etico – la questione è aperta e va affrontata con serenità e prudenza. Senza pretendere che esistano risposte facili o “rimedi” validi per tutte le circostanze.

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