domenica 5 dicembre 2010
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Da un lato gruppi inaspettatamente numerosi di giovani che si affollano per cogliere l’opportunità offerta dal progetto "Vivi le Forze Armate" (la cosiddetta "mini naja" di tre settimane), costringendo il ministero della Difesa a una selezione accorta e allo scaglionamento dei contingenti in tempi successivi. Dall’altro aggregazioni altrettanto nutrite di ragazzi e ragazze che vorrebbero cimentarsi nel servizio civile (l’alternativa storica alla leva con le stellette, prima che l’obbligo di "andare soldato" venisse sospeso), ma sono in misura crescente costretti a rinunciare dalla carenza di disponibilità finanziarie. Alle soglie dell’anno centocinquantenario dell’Italia unita, si profila una singolare e, tutto sommato, poco consolante coincidenza: avremo insieme, complici le strettoie contabili e, in definitiva, il restringimento degli orizzonti culturali, la riduzione ai minimi termini di due importanti esperienze formative, di segno diverso ma non opposto, purché rettamente guidate e comprese. A innervare le radici di entrambe, infatti, si colloca uno di quei «doveri inderogabili di solidarietà» che l’articolo 2 della nostra Costituzione affianca – ma non contrappone – ai «diritti inviolabili dell’uomo», da tutelare sia in forma individuale che collettiva. Nel caso specifico, e nei termini più comprensibili, si tratta semplicemente del dovere di fare qualcosa per il Paese al quale apparteniamo, di trascorrere una pur breve stagione della vita declinando la comune cittadinanza in disponibilità al perseguimento del comune bene, in particolare nelle forme proposte dall’ordinamento pubblico. I resoconti che diamo nelle pagine dedicate oggi al duplice fenomeno dimostrano, del resto, che la valenza educativa delle due vie proposte rimane indubbia. Intanto perché anche la tradizionale immagine bellicosa della scelta militare va sempre più trascolorando in senso – vogliamo provare a dirlo? – "pacifista". Siamo pronti a scommetterci: se si andassero a esplorare le motivazioni profonde di chi vuole vestire la divisa, sia per i simbolici venti giorni in questione sia per uno o più anni, scopriremmo che non poco incide certa esemplarità delle missioni internazionali di peacekeeping o di tutela di popolazioni minacciate da terrorismo e violenza endemica, alle quali il nostro Paese prende parte con unanime riconoscimento di efficienza e di capacità costruttiva. Sono in ballo, non bisogna temere di affermarlo ad alta voce, volori e virtù costitutivi di qualunque comunità umana, come la dedizione, l’altruismo, lo spirito di servizio. Coltivarli nella misura e con le modalità possibili dovrebbe rappresentare una delle preoccupazioni principali di chi guida una nazione, quasi come un investimento in beni immateriali il cui "ritorno", a gioco lungo, è sempre garantito, quanto meno sotto forma di spirito civico e di educazione alla convivenza. È ben noto del resto che l’età giovanile, con i suoi slanci e la sua carica di entusiasmo vitale, è la più propizia a cogliere opportunità di "spendersi" per gli altri, riflesso in fondo di quell’istinto a uscire fuori da se stessi per trovare il senso vero di ogni esistenza. Lo ricordava proprio ieri il presidente della Cei in occasione della festa di Santa Barbara, patrona congiunta di tante "specialità" militari ma anche di professionisti della protezione civile come i vigili del fuoco: «Una società che abbandonasse e oscurasse il senso del dono sarebbe una società destinata a morire». Incentivare la vocazione al dono di sé è, in ultima analisi, la "mission" comune a entrambi i servizi. Peccato ridimensionarla o, peggio, lasciarla deperire.
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