Dilemmi veri e una risposta
sabato 18 maggio 2019

Il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald J. Trump è tornato a parlare d’immigrazione, e questa volta non con un tweet, ma annunciando una proposta programmatica più articolata, elaborata insieme al genero-consigliere Jared Kouchner. Dalle prime anticipazioni, il piano dovrebbe privilegiare il merito individuale e il raccordo con i fabbisogni del sistema economico. Più immigrati qualificati, che dovrebbero superare il 50% del nuovi ingressi, meno ingressi per ragioni familiari, che dovrebbero scendere a un terzo, fine della lotteria che ogni anno affidava al caso la scelta di oltre 50mila ammessi al «sogno americano», nessuna apertura alla regolarizzazione degli 11 milioni di immigrati irregolari, neppure di quelli entrati da bambini ed educati negli States.

Se ne possono ricavare due insegnamenti. In primo luogo, la parola chiave delle politiche migratorie contemporanee non è chiusura, ma selettività. In un certo senso, l’immigrazione non esiste. Esistono diversi tipi e categorie di immigrati, e le persone in carne e ossa vengono incasellate o possono cercare di inserirsi in qualcuna di queste categorie. Anche i governi dichiaratamente più ostili all'apertura dei confini, alla fine, arrivano ad ammettere che certi tipi di immigrati non solo servono, ma sono benvenuti. Già molto prima di Trump gli Stati Uniti, seguiti dalla Ue, cercavano attivamente nel resto del mondo persone altamente qualificate e altri professionisti come quelli del settore sanitario. In quest’ultimo ambito così delicato e cruciale, ossia la cura delle persone fragili, il Nord del mondo dipende nettamente dal Sud per la fornitura di medici, infermieri, operatori socio-assistenziali, fino al fenomeno – non solo nostrano – delle assistenti familiari dette "badanti".

Il secondo insegnamento corregge uno dei più radicati e micidiali stereotipi del dibattito corrente: quello che contrappone élite globalizzate e gente comune. Le prime, le élite, liberali e disposte all'accoglienza, ma ben protette nei loro quartieri esclusivi. La seconda, la gente, confinata nelle periferie, costretta a convivere con la diversità multietnica e ostile verso un degrado che sarebbe provocato dai nuovi vicini. In realtà, neanche le élite benpensanti esistono come gruppo compatto e omogeneo, così come i loro supposti antagonisti nelle aree urbane disagiate. Anche i gruppi dirigenti manifestano vari gradi di apertura e di tolleranza o del loro contrario. Su un punto però la maggioranza di questi ultimi converge: l’ammissione selettiva degli immigrati utili, contro l’esclusione degli altri, quelli che hanno apparentemente poco da offrire e chiedono invece accoglienza sulla base della nostra comune umanità, di quei princìpi etici e costituzionali che Giuseppe Anzani richiamava il 15 maggio scorso su queste colonne.

Quando si dirada il polverone delle dichiarazioni roboanti sui muri da innalzare o i porti da chiudere, salgono alla ribalta i veri dilemmi. Quelli che Trump non sembra farsi, ma che non possono essere elusi. Il primo dilemma riguarda la questione di quali e quanti immigrati abbiamo bisogno. Se solo persone qualificate, oppure anche lavoratori più ordinari, per esempio. Il secondo, ancora più difficile, ci chiede di decidere quanto siamo disposti ad allargare i paletti della tenda per fare posto a quella frazione dell’umanità dolente, perseguitata, scacciata di casa, che bussa alle nostre porte. Nonché ai familiari degli immigrati che, nel tempo, si sono insediati nei nostri Paesi. Papa Francesco – in questi giorni viene da aggiungere: con il suo elemosiniere – ci indica ogni giorno come dovrebbero regolarsi i cristiani, che hanno responsabilità di cittadini e qualcuna in più.

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