mercoledì 14 febbraio 2018
Nel mondo che ha smesso di fare bambini si respira eccitazione ma anche depressione e solitudine. Ma c'è una gioia creativa che può vincere l'individualismo
(Ansa)

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Nell’attuale confronto elettorale, la costante caduta della natalità nel nostro paese sembra finalmente diventato un argomento di preoccupazione anche sul piano politico. Per risolvere l’ormai gravissimo problema vengono avanzate diverse proposte, prevalentemente rivolte a incentivare e sostenere sul piano economico le coppie che intendono mettere al mondo bambini. Ma la caduta della natalità è un fenomeno che va ben al di là delle pur vere e gravi difficoltà economiche, e non credo sia possibile avviare un’inversione di rotta se non ci si ferma a riflettere in modo approfondito su ciò che un progetto generativo implica davvero. Oggi come sempre, ciò che muove l’uomo nelle sue decisioni sono quegli obiettivi che sembrano promettergli una vita più felice; in questo senso, credo possibile affermare che avere dei figli non appare più tra le scelte che colleghiamo all’idea di felicità: i figli ci appaiono più come un vincolo che come una risorsa; sentiamo i loro bisogni come contrapposti ai nostri bisogni e la responsabilità nei loro confronti come una pesante restrizione della nostra libertà e delle nostre opportunità.

La maggior parte delle persone vive la vita in termini esclusivamente individuali: progetta la propria riuscita professionale, il modo di emergere e di ottenere una buona posizione sociale, il modo di raggiungere risultati il più possibile soddisfacenti in campo economico; siamo accomunati dall’idea che la vita migliore, quella più riuscita e soddisfacente, dipenderà dalla capacità di investire energie, risorse e pensieri in progetti di auto-realizzazione. Anche nella formazione della coppia il baricentro non cambia e gli aspetti di progettualità comune sono spesso subordinati a quelli delle progettualità individuali: l’uomo e la donna leggono la loro relazione come uno scambio affettivo, nel quale è sottinteso che ognuno dei due potrà in primo luogo continuare a perseguire i propri obiettivi individuali con il sostegno dell’altro. Va aggiunto che nel crescere ed educare i nostri figli, raramente pensiamo a loro anche come i potenziali genitori del futuro, e dunque raramente ci occupiamo di definire per loro obiettivi relazionali accanto a quelli individuali. È in questo contesto, con questo modo di immaginare la vita e le relazioni, che la coppia di oggi si trova davanti all’ipotesi impegnativa di mettere al mondo un bambino; con queste premesse, anche l’idea del figlio si affaccia alla mente come uno dei possibili progetti di autorealizzazione: avere un bambino è qualcosa da decidere solo se e quando la sua nascita si inserirà nel nostro progetto di vita, completando in qualche modo l’immagine che vogliamo avere di noi stessi.

Ma mettere al mondo un figlio non è una scelta che può collocarsi nello stesso ordine delle altre decisioni: non è come decidere se acquistare una casa, oppure accettare o rifiutare un lavoro; non ha niente a che fare con il modo di procedere che conosciamo e che ci guida a prendere decisioni in ordine ai progetti di realizzazione individuale. Mettere al mondo un figlio comporta l’esperienza di una profonda discontinuità, il salto in una dimensione nuova e totalmente differente: il figlio è un’apertura all’ignoto, all’imprevisto, a qualcosa che sfugge inevitabilmente ad ogni possibile programmazione; accogliere un figlio significa accettare l’inizio di un’avventura che non potremo controllare se non in minima parte, e che potrà esporci alla gioia ma anche al dolore, a soddisfazioni ma anche a frustrazioni. Un figlio ci cambia la vita completamente e senza ritorno, e ci chiede di accettare il rischio di una novità vera che, pur originando da noi, non potremo e non dovremo controllare.

Anche se forse non sappiamo metterlo in parole, ognuno di noi percepisce questa differenza e la vive con timore, e soprattutto la donna sente il peso della sfida che un figlio rappresenta per lei. La possibilità, ormai data per scontata, di decidere se e quando dare accesso alla vita ha messo più che mai nelle sue mani un potere terribile, e di fronte all’idea di una gravidanza la donna di oggi ha più che mai paura: come cambierà la sua vita? Come potrà continuare a perseguire i suoi obiettivi personali e insieme fare spazio all’alterità di un figlio? Il potere di decidere, che viene lasciato quasi del tutto nelle sue mani, la fa sentire la un lato onnipotente ma dall’altro molto sola, di una solitudine per certi aspetti nuova e persino più profonda che nel passato. Anche quando la gravidanza è stata desiderata, il suo concretarsi rappresenta sempre un passaggio delicato e carico di ambivalenza per la donna: sente infatti che si tratta di qualcosa di definitivo, che modifica la sua vita in modo profondo creando un legame nuovo e irreversibile. In questa situazione, la presenza accanto a lei di un uomo capace di condividere le sue preoccupazioni e di assumersi con decisione e gioia la paternità del suo bambino è ciò che potrebbe fare la differenza.

Ma anche assumere la paternità non è un passaggio semplice. Accogliere la maternità vuol dire fare spazio nella propria vita a qualcuno che costringe ad una generosità nuova: con un figlio non sarà più possibile pensare la vita solo per sé, perché da quel momento i suoi bisogni interpellano la madre in modo ineludibile. Ma anche accogliere davvero la paternità vuol dire imparare a spostare il baricentro della vita: il figlio infatti si proietta nel futuro e dunque mette in moto il tempo; chiede al padre di non agire più solo per sé stesso, ma per preparargli un’eredità fatta non solo di cose ma anche di speranza, imparando a passare dalla logica della pura realizzazione personale a quella che si inserisce nella continuità tra le generazioni, dove ciascuno ha il compito di imparare la gratitudine per chi lo precede, e di preparare con generosità la strada per chi verrà dopo di lui. Se dunque siamo abituati a considerare la felicità solo come il frutto del successo dei nostri progetti individuali, sarà molto difficile fare spazio a qualcuno che, come i figli, ci vincola a sé o che sembra rubarci il futuro. Ma la strada per essere felici è davvero quella che immaginiamo?

In questo mondo che ha smesso di fare bambini, si respira un’aria di eccitazione ma non certo di felicità: depressione e noia dilagano, e la corsa sempre più affannata dietro le cose (da fare, da provare, da comprare) sembra più che altro il tentativo di nascondere un senso sempre più diffuso di solitudine e di morte. È dunque necessario domandarci qual è per l’uomo la strada della felicità possibile. Mi viene allora in mente ciò che diceva Donald Winnicott, pediatra e psicanalista: la via che l’uomo ha per sentirsi felice passa attraverso la sua capacità di sviluppare creatività. La creatività consiste in un incontro fecondo tra realtà interna e realtà esterna: consiste nella capacità di far esistere nel mondo qualcosa che prende origine dentro di noi, e che prende forma e concretezza fuori di noi. Nell’atto creativo l’attenzione non è centrata sul sé, ma sulla bellezza di ciò che si crea: ciò che conta è il frutto, non la fatica e nemmeno il guadagno che ricaviamo. L’atto creativo ha la sua ricompensa nel piacere di creare e nel valore di ciò che si è creato: qualcosa di inedito che ha avuto in noi la sua origine.

Proprio in questo senso, fare figli è in assoluto l’atto più creativo a disposizione dell’uomo: mai come con un figlio l’uomo mette nel mondo qualcosa di vitale e concreto che origina da lui, e mai come con un figlio può riscoprire tutta la bellezza e la pienezza della vita che si rinnova con la sua ricchezza inesauribile. Il figlio è davvero un inedito, qualcosa che prende origine da noi, ma insieme ci trascende aggiungendo ricchezza e assoluta novità alla vita. Solo riscoprire questa gioia pienamente creativa del generare e diffonderne il contagio potrà permettere alla nostra società di uscire dalla tristezza di un mondo senza più figli.

*Neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta

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