Ddl Zan, una buona legge era possibile e lo è ancora
martedì 9 novembre 2021

Dopo il fallimento del pdl su omotransfobia e identità di genere Molto si è detto e scritto sull’affossamento del ddl Zan contro l’omotransfobia. Mi limito a un punto: l’impressione che siano prevalse le manovre politiche sulle considerazioni di merito. Tutti si sono affannati ad assicurare di condividere il fine dichiarato: prevenire e contrastare discriminazioni e violenze. Salvo poi praticare comportamenti che, più o meno intenzionalmente, hanno contribuito a produrre l’esito che conosciamo.

Penso a chi ha votato il testo alla Camera e ha cambiato idea al Senato dando credito alla disponibilità a discuterne (si è visto poi quanto infondata) di chi palesemente mirava ad affondarla; a chi ha chiesto e ottenuto il voto segreto sulla cosiddetta 'tagliola', cioè sul non passaggio neppure all’esame degli articoli del disegno di legge; a chi – i favorevoli al testo Zan – si sono a lungo rifiutati di apportare correttivi ragionevoli su tre punti controversi, concernenti gli art. 1, 4 e 7, rispettivamente concernenti la nebulosa nozione di 'identità di genere', la garanzia contro un possibile slittamento verso una compressione della libertà di opinione, l’introduzione nelle scuole di una giornata dedicata alla questione (quanti gli insegnanti attrezzati a gestirla?).

Aprendo troppo tardivamente a una mediazione e fornendo così un alibi a chi semplicemente si proponeva di affossare la legge o a chi, manifestamente, se n’è servito per oscure manovre in vista della ravvicinata elezione del successore di Mattarella al Quirinale. Peccato, perché, a mio avviso, se davvero ci si fosse concentrati sul merito, sarebbe stato possibile varare un testo convincente e largamente condiviso. Come ha più volte auspicato lo stesso vertice dell’episcopato italiano, che ha mosso puntuali rilievi critici, sempre nel quadro di un intento propositivo.

Un solo esempio: quello relativo alla nozione incerta e controversa dell’identità di genere. Giovanni Maria Flick, proprio da queste colonne, aveva avvertito: quando si maneggiano leggi di natura penale che, di loro natura, contemplano sanzioni, le fattispecie devono essere precise e univoche. E che l’idea- concetto 'identità di genere' non lo sia è testimoniato dalla vivace e spesso sofisticata disputa filosofico- antropologica che la riguarda. Disputa che ha diviso anche il fronte del femminismo nostrano, del quale ha dato puntualmente conto 'Avvenire'. Dunque, è un errore introdurre in una legge penale concetti dal contenuto e dai confini incerti appunto perché oggetto di sottili discussioni a livello etico-antropologico che attraversano e dividono orizzontalmente i campi politico-culturali e oppongono persino gli affini.

Eppure una soluzione semplice e di buon senso sarebbe stata possibile: un emendamento di due sole parole alla vigente legge Mancino che sin dal 1993 introduce un’aggravante per le discriminazioni su base razziale, etnica e religiosa o nazionale. Sarebbe bastato aggiungere le discriminazioni sulla base dell’'orientamento sessuale'. Una fattispecie comprensiva e comprensibile, senza imbarcarsi, come si è osservato, in formule oscure e in dispute ideologiche decisamente ultronee. Forse si è ancora in tempo per imboccare una strada più convincente e propositiva, se davvero si volesse concentrarsi sul merito. Spiace che, intanto, si stia pagando un prezzo: quello di trasmettere all’opinione pubblica l’immagine di una politica e, segnatamente, di un Parlamento che sacrificano la sostanza dei problemi e le sagge mediazioni su questioni tanto delicate ai giochi di palazzo e ai dogmi ideologici. Con un epilogo francamente avvilente: quello delle reciproche scomuniche e delle urla di esultanza per avere perso l’occasione di dare al Paese una buona legge, che, a parole, tutti dichiaravano di volere. E che era a portata di mano.

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