martedì 10 gennaio 2017
Due terzi delle risorse biologiche del pianeta si trovano in territori abitati dalla maggior parte degli indigeni Oggi la lotta a dighe, gasdotti e coltivazioni Ogm è in nome dei diritti e della legge
Le proteste dei Sioux

Le proteste dei Sioux

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Voglia di vincere. Emerge nello sguardo di un indio che si batte per la tutela di una foresta pluviale, nei colori vividi delle decorazioni della tribù autoctona che impedisce le estrazioni minerarie, nelle azioni legali dei coltivatori che protestano contro le sementi chimiche: una spericolata, ancestrale e nobilissima voglia di vincere. E che quest’anno, dalle foreste del Nord Dakota fino ai deserti australiani, è esplosa in un impronosticabile coro di successi: il 2016 è stato l’anno del trionfo delle tribù indigene in tutto il mondo nel conflitto volto a preservare il proprio habitat naturale. Una lotta globale fatta di battaglie locali. Una nuova concezione, maturata definitivamente negli anni Novanta, che lega oggi gli attivisti ambientali, i movimenti politici, le tribù indigene e le popolazioni locali di tutto il mondo in nome della tutela del territorio e delle sue risorse. Come sintetizza la saggista Naomi Klein: «Le varie minacce rappresentate dai rifiuti tossici a cui queste comunità si oppongono sembrano risvegliare impulsi universali, persino primitivi: che si tratti dell’imperativo di proteggere i propri figli dal male o di quella profonda connessione con la terra che in passato era stata soppressa».


Una battaglia dura – in cui si fronteggiano peones travestiti da Davide contro Golia multinazionali – che nell’anno appena concluso erompe nell’urlo della vittoria di Volpe Coraggiosa, capo tribù dei leggendari indiani Sioux, che ha festeggiato il blocco della realizzazione di un oleodotto in Nord Dakota. E non è il solo grido di riscatto, dal sapore antichissimo, che ha riecheggiato nel pianeta durante il 2016. Poco più ad ovest dei Sioux, vivono i Lumni, una tribù di nativi americani dello stato di Washington: per anni gli appartenenti si sono battuti contro la costruzione di un terminale per l’esportazione del carbone, il Gateway Pacific. Non era una battaglia di principio, ma di posizione: il progetto minacciava Xwe’chi’eXen (Cherry Point), sito di importanza storica per la tribù e circondato da acque protette dal Trattato della Nazione dei Lummi. E gli indigeni hanno imparato che archi e frecce, già poco utili in passato, non sono l’arma migliore nella società contemporanea: meglio appellarsi alla legge costituita, così i Lumni si sono rivolti all’Army corps of engineers che a maggio ha bloccato il progetto. Non si tratta di storie puntuali e sconnesse. Nell’estate scorsa, in Idaho sono arrivati i delegati di tribù provenienti da 19 stati nordamericani per partecipare al più grande workshop di Nativi americani sui cambiamenti climatici: si sono uniti insieme perché il surriscaldamento globale trascende i confini nazionali.


Nel mondo sta crescendo una forma di resistenza collettiva delle popolazioni indigene, non solo negli Usa e non solo tra gli indiani: si tratta di tutti gli eredi delle nostre culture più antiche, che protestano per il trattamento dei propri territori. E non è un caso che i 17 'paesi biologici', cioé quelli dove oggi sono ospitati i due terzi delle risorse biologiche planetarie, siano anche i territori tradizionali della maggiorparte dei popoli indigeni esistenti al mondo. Come a significare che la tutela della storia umana sia legata a quella del nostro habitat naturale. Per usare le parole di Arundhati Roy: «Il primo passo per reimmaginare un mondo terribilmente sbagliato sarebbe fermare l’annientamento di coloro che hanno un’immaginazione differente (…) è necessario concedere spazio fisico per la sopravvivenza di quanti possono sembrare i custodi del nostro passato, e invece potrebbero davvero essere le guide per il nostro futuro». Spostandoci più a sud lungo il continente americano, un’altra grande vittoria indigena è stata quella degli Apicoltori Maya, organizzazione che in Messico riunisce più di 15mila famiglie di origine Maya. L’associazione ha infatti costretto il gigante Monsanto ad un confronto per poter piantare 250mila ettari di soia geneticamente modificata nella penisola Da sinistra in senso orario: le proteste dei Sioux, un membro della tribù Munduruku, gli aborigeni Larrakia, i capi indigeni del Yaigojé Apaporis in Colombia, i movimenti messicani contro gli Ogm dello Yucatán: anche in questo caso, la via è stata giudiziale e il tribunale ha dato ragione agli apicoltori visto l’impiego del glifosato da parte di Monsanto.


Legale è stata anche l’arma degli indigeni colombiani della riserva Yaigojé Apaporis: oggi la loro area è stata riconosciuta come parco nazionale e quindi non potrà essere sfruttata per usi minerari. Ma nel 2009 un’azienda canadese aveva ottenuto concessioni statali per estrarre oro da queste terre: dopo 5 anni di battaglie giudiziarie, gli indigeni hanno vinto. Così come le tribù del Guatemala che hanno fatto condannare l’azienda Respa per ecocidio, dopo che le attività dell’impresa – dedita alla produzione di olio di palma – lungo il fiume La Pasión hanno causato la morte di milioni di pesci e di altri animali. Una vittoria postuma anche per Rigoberto Lima Choc, professore indigeno, primo a documentare il danno ambientale causato da Respa e assassinato il 18 settembre 2015 fuori dal tribunale, dopo che un giudice aveva ordinato al produttore di olio di palma di sospendere le sue attività. Lima Choc era un leader coraggioso, come Chico Mendes, ucciso nel 1988 in Amazzonia. Mendes, indigeno brasiliano che fino a 18 anni non sapeva neanche leggere, è stato il primo leader locale a divenire un fenomeno globale a causa della protesta contro lo sfruttamento del 'polmone verde' del mondo: un simbolo che univa il mondo tribale alle nuove istanze sociali.


Come negli anni Novanta succederà al Subcomandante Marcos, che guida la ribellione dell’EZLN in difesa della popolazione autoctona del Chiapas messicano, e a Ken Saro-Wiwa, leader della popolazione degli Ogoni in Nigeria che si opponevano all’estrazione di petrolio da parte della Shell nel loro territorio. Oggi il sacrificio di Ken Saro-Wiwa, 'giustiziato' dallo stato nigeriano insieme ad altri otto attivisti, si traduce nella vittoria collettiva di un popolo: nel 2015 una corte olandese ha condannato il gigante petrolifero Royal Dutch Shell a rispondere per i danni causati dall’estrazione di petrolio nel Delta del Niger a partire dagli anni Cinquanta.

Un’altra vittoria collettiva che nel 2016 hanno segnato le tribu ancestrali nel continente americano è quella dei 12mila Munduruku: insieme a Greenpeace e Survival International, gli indigeni brasiliani hanno impedito che per la costruzione della diga idroelettrica São Luiz do Tapajós fosse deviato un affluente del Rio delle Amazzoni, che avrebbe inondato le loro terre ancestrali. Anche gli indigeni della regione di Baram, nello stato di Sarawak nel Borneo malese, si sono opposti alla costruzione della diga di Baram sull’omonimo fiume: il governo locale li aveva privati del diritto alla terra e loro per due anni hanno organizzato l’ostruzione del territorio destinato alla diga, fino all’abbandono del progetto avvenuto quest’anno. La minaccia dello sfruttamento del territorio incombe anche nello stato di Odisha, lungo la costa orientale dell’India, dove la tribù Dongria ha impedito la costruzione di una mina dell’impresa Vedanta Resources sulle sue terre: «Anche se ci tagliano la testa, o fanno sì che la nostra carne e le nostre ossa scorrano in fiumi di sangue, non sacrificheremo le nostre montagne», ha dichiarato il capo tribù Lodu Sikaka. E gli indios, così, resistono all’incedere di un futuro speculativo: anzi, il 29 novembre 2015, all’altro capo del mondo, la tribù di Wampis nell’Amazzonia ha stabilito il primo governo indigeno autonomo del Perù.

Si tratta di un territorio di oltre 1 milione di ettari creato per difendere lo stile di vita tradizionale di 100 comunità Wampis, in cui vivono oltre 10mila persone. Non sono i soli indigeni ad aver avuto la concessione legale della propria terra: il 21 giugno scorso, al popolo aborigeno dei Larrakia sono stati restituiti 52mila ettari delle loro terre ancestrali. Ci sono voluti 37 anni ed è stata la più lunga rivendicazione territoriale nella storia dell’Australia, ma alla fine i Larrakia hanno ottenuto anche il rimborso statale di circa 21 milioni di euro per ripristinare le terre danneggiate dalle attività industriali. Vittorie impensabili, che schiudono la prospettiva lungimirante di Hadley Archer, direttore esecutivo di Nature Conservancy Canada: «Così dovranno essere prese le decisioni sulle risorse in futuro: attraverso la gestione di comune accordo con le persone che in queste terre vivono da sempre».

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