Questo cuore da guarire
sabato 20 aprile 2019

«Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Giovanni 2, 19). Gesù parlava del tempio del suo corpo, spiega l’evangelista. Mentre celebriamo la risurrezione di Gesù, abbiamo ancora negli occhi le struggenti immagini della cattedrale di Notre-Dame in fiamme. L’evento, a quanto sembra, ha provocato un brivido non effimero di commozione nell'intera comunità, credenti e non credenti. Come fosse un riflesso della nostra condizione di orfani, la cui verità diventa improvvisamente e dolorosamente evidente all'inconscio collettivo. Una cattedrale possiamo ricostruirla, e lo faremo di certo. Ma la domanda è un’altra. Saremo capaci di abitarla come un luogo dove i legami d’amore, la cui giustizia resiste anche alla morte, non sono parole vuote? Saremo capaci di irradiarne spiriti vitali per la comunità, per restituire gli orfani di Dio alla commozione di una fraternità ritrovata, ostinata, pacificata culturalmente con sé stessa?
Questa Pasqua deve segnare l’inizio di una guarigione collettiva del nostro cuore, che è diventato diffidente nei confronti di Dio, e dissolvere i fantasmi di una mente collettiva demoralizzata, che non crede più nel miracolo della nascita. Una singola vita umana nasce per sempre. E l’operosa prossimità di una comunità che la sostiene, anche nei suoi estremi abbandoni, in vista della sua rinascita, è la parte più bella del nostro vivere insieme.
«L’avete fatto a me» (Matteo 25, 40). Quanto amore ci vuole per soffrire l’ingiustizia patita dalle vittime della storia, come fosse nostra? Una misura immensa, senza dubbio. Per assuefarci all'indifferenza, però, sembra che basti un niente. Questa indifferenza appare oggi come una forma evoluta (si fa per dire) dell’ateismo. Intendo l’ateismo del cuore, naturalmente, non quello dei giochi intellettuali con i quali cerchiamo di mascherarlo, trasformandolo in enigmistica degli assoluti. L’ateismo del cuore incomincia come vergogna della compassione, che ci fa sembrare deboli e irrazionali. Si concentra nella cura di sé, accettando l’avvilimento di interi popoli come una fatalità dell’evoluzione che seleziona i vincenti. Si armonizza infine con l’industria del godimento, premiando l’insensibilità per la privazione dell’altro come ragionevole calcolo delle risorse. L’ateismo del cuore non riconosce nessun Dio della giustizia al quale rispondere, né alcun Dio dell’amore al quale corrispondere. L’ateismo del cuore ingrassa il nichilismo e divide gli umani. Produce effetti di degrado civile che possono assumere forme impressionanti di ignoranza e di aggressività (una rapida scorsa ai commenti e ai blog che circolano in rete offre un diluvio di evidenze).
Tuttavia, esso appare capace di insinuanti complicità con il nostro diritto alla ricerca della felicità, e di sofisticate giustificazioni dell’amore di sé.
La religione stessa non è risparmiata, anche dietro l’apparenza di un teismo duro e puro della professione di fede, dalla coltivazione dell’ateismo del cuore. Una contraddizione, certo. Una forma di incredulità particolarmente odiosa, che Gesù ha trafitto, una volta per tutte e per sempre, fino a rimanerne crocifisso.
La morte del Figlio, nondimeno, non è per la rappresaglia, ma per la conversione. Questa conversione appare, nel tempo presente, un vero e proprio tema culturale, una questione sociale, un imperativo globale. La celebrazione cristiana della risurrezione di Gesù è un appello alla resistenza umana nei confronti dell’ateismo del cuore: un punto di alleanza per credenti e non credenti, prima che esso procuri assuefazione per i figli della generazione a venire. I morti offrono un alibi, apparentemente, alla nostra indifferenza, invitando a conciliarci con essa: quello che è stato è stato. Noi, però, non abbiamo nessuna intenzione di considerare la morte come un regolamento di conti con le ingiustizie della storia. I segni delle ferite, ancora visibili nel corpo del Risorto, tengono viva la nostra invocazione per il giusto riscatto di tutte le ferite, visibili e invisibili, che abbiamo abbandonato al loro destino.
La Pasqua del Signore restituisce freschezza e forza a questa fermezza della fede, offrendole la giustificazione che rende degna di ascolto la sua testimonianza. Noi parteciperemo alla sua risurrezione. La fede nella potenza d’amore del Figlio Gesù, «primogenIto di coloro che risuscitano dai morti» (Lettera ai Colossesi 1, 18), sconfigge l’ateismo del cuore e onora l’ostinazione della prossimità fra gli umani. La fede che tutti dobbiamo ritrovare, per dare senso alla ricostruzione delle cattedrali, è quella che non abbandona nessuno – neppure i morti – alle ingiustizie della storia.

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