venerdì 23 dicembre 2011
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Sono due le dimensioni che si intrecciano nella terribile serie di attentati che ieri ha scosso la capitale irachena Bagdad, lasciandosi alle spalle una scia di sangue fatta di oltre 80 morti e più di 160 feriti: una è interna alla tragica vicenda irachena di questi ultimi 8 anni, la seconda è regionale e va inquadrata nel confronto mai sopito e ormai sempre più aspro tra islam sunnita e islam sciita. Non è passata neppure una settimana dal ritiro degli ultimi soldati americani dal Paese per determinare la rottura del fragilissimo patto che teneva insieme sciiti, sunniti e curdi all’interno di un 'governo di unità nazionale'. Una simile espressione, così come quella di "grande coalizione", non riesce davvero a rendere l’idea della situazione irachena e del suo rapidissimo precipitare, contemporaneo al venir meno della ormai pur simbolica presenza delle truppe di occupazione. Non c’è alcuna normalità istituzionale e nessun serio "patto costituzionale" che appaia in grado di evitare che in Iraq si arrivi presto alla guerra aperta tra le diverse componenti di un Paese tenuto insieme, nel suo passato, da due fattori: le ingentissime risorse petrolifere e il pugno di ferro dei diversi governi che si sono succeduti dalla sua invenzione (compreso il mandato britannico tra le due guerre). La sensazione è che solo il ripristino della contemporaneità della vigenza di questi due fattori possa forse riportare la situazione sotto controllo. Inutile sottolineare che questo significherebbe il totale fallimento non solo dell’ambizioso progetto di esportazione della democrazia, patrocinato dal George W. Bush e dai suoi consiglieri neocon, ma anche di quello più modesto di lasciare un Iraq politicamente più affidabile e più presentabile di quello governato da Saddam Hussein. Molto più significative del clima da resa dei conti in cui versa il Paese sono le notizie dell’ordine di arresto spiccato nei confronti di uno dei due vicepresidenti della Repubblica (il sunnita Tareq al-Hashemi) per presunte attività terroristiche, dell’ingiunzione da parte del premier Nouri al-Maliki (sciita moderato) al governo autonomo del Kurdistan di consegnare Hashemi alle autorità centrali, e della richiesta di dimissioni di uno dei suoi vice, Saleh al-Mutlak per aver definito il governo di unità nazionale a guida sciita una «dittatura peggiore di quella di Saddam». Come a ricordare ai curdi che non possono stare alla finestra nello scontro tra sciiti e sunniti... E proprio questo scontro sta riaccendendosi in maniera violenta non solo nelle terre investite dalla 'primavera araba' (dal Bahrein alla Siria) ma anche in quelle che per ora ne sono rimaste ai margini come il Libano. Quello che sta succedendo in Iraq, inutile nasconderlo, rappresenta anche un insperato "regalo" per Assad e il regime di Damasco. Mostra infatti come potrebbe essere pericoloso illudersi che, dopo decenni di dittatura assoluta, forme di governo stabili e più attente nei confronti della popolazione siano effettivamente sostenibili per società religiosamente molto composite (e in questo Iraq e Siria si assomigliano assai) senza prima transitare attraverso una lunga e sanguinosa guerra civile. E nessuno potrebbe auspicare una prolungata condizione del genere ai confini dello Stato di Israele. Tanto più che qualora la situazione siriana dovesse precipitare, verrebbe coinvolto anche il Libano: in una tale prospettiva, considerando il crescente caos egiziano, lo Stato ebraico si ritroverebbe con tre fronti di instabilità sui propri confini. D’altra parte, e per nulla paradossalmente, un Iraq controllato dalla sola maggioranza sciita non rappresenterebbe una soluzione accettabile per le leadership sunnite della regione, già da tempo timorose che quanto sta accadendo da decenni sia parte di un disegno iraniano di realizzare la propria egemonia: una preoccupazione evidentemente rafforzata dalle voci sull’imminente raggiungimento di capacità nucleari militari da parte di Teheran. Altra prospettiva inaccettabile per Tel Aviv, che potrebbe spingere il governo israeliano a tentare persino una pericolosa azione militare.
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