Crisi Ucraina-Russia, spirito fatto evaporare
mercoledì 23 febbraio 2022

Intrappolata nel labirinto delle troppe diversità che ne hanno minato l’efficacia e molto spesso la credibilità, l’Europa non ha potuto far altro che subire quasi passivamente le mosse sempre più audaci e sempre meno rassicuranti di Vladimir Putin, fino al teatrale esito di lunedì notte, allorché Mosca ha riconosciuto ufficialmente le Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk dando vita a un sostanziale Anschluss del Donbass (il termine – che sta per "annessione" – lo prendiamo deliberatamente dal tedesco, in quanto ricorda da vicino quella austriaca del 1938, allorché i carri armati della Wehrmacht oltrepassarono la frontiera invadendo il Paese).

L’Europa ha finito essenzialmente per balbettare di fronte alla tambureggiante minaccia russa, trafitta da interessi economici divergenti, da rivalità e da politiche estere in contrasto fra loro: la mai sopita grandeur francese, la ben celata Wille zur Macht tedesca (soprattutto come potenza economica), la Special Relationship fra Londra e Washington (per tacere di certo provincialismo italiano per cui una guerricciola di palazzo conta più della distensione in Ucraina).

Non dobbiamo meravigliarcene. La stessa natura pacifica e consociativa dell’Unione nata dalle ceneri del secondo conflitto mondiale e costruita sui princìpi della democrazia liberale e dello Stato sociale non ha mai davvero contemplato – e lo consideriamo un privilegio e una fortuna – l’ipotesi della guerra, grazie anche a lunghi decenni di pace.

Alla difesa è bastato l’ombrello dell’Alleanza Atlantica, che pure non copriva tutte le anime europee: Austria, Finlandia, Irlanda e Svezia sono tuttora membri neutrali della Ue. Nondimeno fin dai suoi esordi l’ipotesi di una difesa comune europea non ha mai trovato concreta attuazione.

Non scomodiamo dunque Neville Chamberlain e la sua fallimentare strategia conciliante nei confronti dell’aggressività di Adolf Hitler. L’Europa non è una potenza guerriera, la Nato non è un club di nazioni guerrafondaie. Ma il ricordo di ciò che era baluginato vent’anni fa, quando a Pratica di Mare si svolse un summit fra Nato e Federazione Russa culminato in un accordo di collaborazione reciproca siglato da George W.Bush e Vladimir Putin che poneva simbolicamente fine alla Guerra Fredda ci obbliga a riflettere.

A rimeditare cosa fosse andato storto, cosa è cambiato da quella dichiarazione di princìpi (lo "Spirito di Pratica di Mare", come venne entusiasticamente chiamato) che per qualche anno ha visto cooperare sul campo Mosca e gli alleati occidentali. Uno spirito che si è gradualmente sfilacciato fino alla brusca svolta impressa da Putin nel 2008 con l’occupazione dell’Ossezia del Sud dopo una guerra-lampo con la Georgia. Di fatto, l’anteprima dell’occupazione e assimilazione della Crimea del 2014 e della secessione del Donbass.

Tuttavia anche a parecchie nazioni del grande mosaico europeo va addebitata una pesante responsabilità. Quella di non aver puntato i piedi, di non aver arginato il sistematico dispiegamento di armamenti di nuova generazione da parte della Nato in quelle stesse Repubbliche che un tempo facevano parte del Patto di Varsavia e che ora Washington e l’Alleanza hanno affollato di missili a ridosso dei confini russi, ben sapendo che la sindrome dell’accerchiamento è per Mosca un nervo scoperto fin dall’epoca degli zar. L’Europa poteva, anzi doveva, limitare questa corsa agli armamenti e non lo ha fatto. Immemore forse dell’epoca in cui il suo territorio veniva definito con scabra essenzialità militare «teatro europeo», (eufemismo per non dire «campo di battaglia») nel quale dal 1979 in poi furono schierati dalla Nato i missili Pershing 2 e Cruise per fronteggiare gli SS-20 sovietici a triplice testata nucleare puntati sul cuore dell’Europa. Oggi gli euromissili hanno solo cambiato nome: con la loro gittata di 500 chilometri i vettori Iskander russi hanno la medesima capacità offensiva di allora. In qualche modo, siamo tornati al punto di partenza; e non possiamo onestamente considerarlo un successo.

Con una piccola eppure sostanziale differenza rispetto al passato: a causa degli euromissili, nel 1979 caddero governi, saltarono coalizioni e alleanze, milioni di persone scesero in piazza, in Germania nacquero i Verdi, in Italia l’unità nazionale si ruppe e il Pci tornò all’opposizione, così come quando vent’anni dopo con l’intervento della Nato nei Balcani cominciava fra le proteste delle piazze il ridisegno dei confini europei, primo atto di un nuovo disordine mondiale di cui Putin sarebbe diventato campione indiscusso.

E oggi? Oggi un’Europa impaurita e disorientata dalla minaccia delle armi e dal tramonto dell’egemonia occidentale già si divide sulla natura delle sanzioni da infliggere a Mosca e al cerchio stretto degli oligarchi più vicini a Putin. Sanzioni che comunque penalizzeranno tutti noi, non soltanto i russi. Oltre che dell’eclissi della gerarchia di valori che ha corroso anche il concetto stesso di democrazia, la disfatta plateale che abbiamo sotto gli occhi è figlia anche dell’immaturità dell’Europa, delle sue assenze, delle sue sordità, dell’incapacità cronica di diventare protagonista. Della pace, prima di tutto. Un compito nuovo, e coraggioso.

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