martedì 20 settembre 2016
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Viviamo un tempo in cui spinte opposte convivono e si combattono. Da una parte, l’aspirazione verso l’oltre-uomo, come esito finale di uno sviluppo tutto mondano che nelle sue forme più estreme arriva ad assumere i caratteri tipici di una idolatria. Dimenticando la lezione del cristianesimo che ha fatto scendere Dio in terra, l’uomo secolarizzato, in una torsione paradossale, pretende di "divinizzare" di nuovo se stesso, questa volta con le sue proprie mani. Dall’altra, il ritorno a istanze di sacralizzazione che, rifiutando la potenza umana – e le basi che la costituiscono (libertà e ragione) – danno spazio a forme nuove di fondamentalismo irrazionalistico, fatalmente attratte dalla violenza.È in questa oscillazione che il fanatismo religioso – fomentato da disegni di potere che strumentalizzano il risentimento diffuso nelle pieghe delle nostre società – si insinua, arrivando a portare i suoi frutti più amari. In questo momento, le convulsioni più forti sono quelle che attraversano il mondo islamico. Ma sarebbe sbagliato pensare che una tale tendenza riguardi solo l’islam. Il fondamentalismo religioso vive, infatti, un forte risveglio un po’ ovunque.

La ragione sta nel fatto che le condizioni nelle quali la nostra vita sociale oggi ha luogo interpellano indistintamente tutte le tradizioni: come ri-pensare l’esperienza religiosa nell’era dell’umanesimo autosufficiente, tecno-scientifico e globalizzato? E ancora: cosa vuol dire per fedi diverse – ognuna convinta della propria verità – condividere lo stesso pianeta? In un mondo ormai piccolo, come deve allora trasformarsi l’idea di religione? Sappiamo che un esito possibile è lo scontro di civiltà. Ma anche che non è l’unico sbocco possibile. La sfida del tempo che abbiamo davanti può infatti essere l’occasione di una nuova maturazione delle fedi che hanno la possibilità di diventare ancora più 'se stesse'. In un mondo che si è fatto piccolo, le tradizioni religiose se non vogliono cadere nella trappola della mutua esclusione – e, appunto, dello scontro di civiltà – hanno il compito di una intima rigenerazione sollecitata e prodotta attraverso ciò che Raimon Pannikar chiamava il dialogo dialogico. 

Un movimento che costituisce un passo fondamentale per lo stesso destino della ragione, chiamata ad allargare l’universale nell’esperienza umana. In quanto relazione con ciò che non è ancora, il dialogo dialogico può essere pensato come una figura della trascendenza che non si limita a ripetere la linea del sé, ma la interrompe, dando vita a un processo capace di «non ridurre l’avvenire al Medesimo, perché include la dualità dell’Identico». Il punto ostico (per tutti) sta nel fatto che il dialogo dialogico inizia una strada che non sappiamo con certezza dove porterà e che comunque è destinata a cambiare tutti gli interlocutori. Il dialogo dialogico è una via di libertà che, aprendoci al di là di ciò che già siamo e conosciamo, ci sospinge a imparare l’essere- per-altri. 

 Muovendoci così da un’idea chiusa e statica a una aperta e dinamica di identità. È chiaro che il dialogo dialogico richiede un vero e proprio salto culturale. Un cambio di civiltà. Che va appreso e radicato con pazienza. Passando per mille fallimenti. Lungo una strada che si deve muovere su tre piani: quello cognitivo della conoscenza dell’altro; quello pratico che passa dalla realizzazione di progetti comuni; quello mistico, come disponibilità ad ammettere che c’è qualcosa al di là di ciò che già siamo che ci aspetta e ci unisce.

Così, nello ristabilire un (nuovo) equilibrio tra ragione e mistica, tra città di Dio e città dell’uomo, il dialogo dialogico, più che una dottrina conclusa, è il metodo grazie al quale le diverse religioni possono avere la possibilità di ritrovarsi, nutrendo una etica (cioè una cura dei legami che ci costituiscono) all’altezza del tempo e ispirando una politica e una economia (cioè uno stile di gestione della nostra casa comune a partire dalla centralità degli ultimi) di cui l’umanità ha enorme bisogno. 

A trent’anni dal primo storico evento, l’incontro di Assisi 2016 rinnova e approfondisce l’intuizione di san Giovanni Paolo II: nel tempo che viviamo, le religioni, dialogando tra loro, hanno la responsabilità di contribuire a tenere ampio l’orizzonte della ragione e a risvegliare la capacità umana di affezione, ponendo in relazione le diverse dimensioni dell’esistenza umana, oggi sempre più frammentate. Una sfida che può essere vinta solo se le religioni per prime, gli uomini e le donne credenti, sapranno recuperare e coltivare quello sguardo mistico di cui ci parla sempre papa Francesco, uno sguardo che ci apre alla ricerca sincera, piena di stupore e di misericordia, di ciò che ci accomuna come esseri umani, straordinariamente potenti, grazie alla nostra intelligenza, ma anche costitutivamente impotenti, in quanto fragili e limitati.

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