Coscienza più profonda per l'azione dei laici
giovedì 31 gennaio 2019

Caro direttore,
da qualche mese pare proporsi una rinnovata attenzione alla storica questione della presenza dei cattolici italiani nella sfera della politica. Il dibattito è sostanziato da numerosi e autorevoli interventi che, da prospettive spesso alquanto differenziate, interrogano il cosiddetto 'mondo cattolico' con voci a esso esterne o con contributi che vengono dalle sue componenti più vive e rappresentative. In una società definita dal Censis come «rancorosa» e «incattivita», qualcuno auspica una presenza organizzata di cattolici come possibile rimedio all’inarrestabile declino delle subculture che avevano garantito vitalità e coesione sociale al nostro Paese, qualcuno sottolinea l’anacronismo di una situazione di contesto che non ha i presupposti né per un rinnovato appello ai 'Liberi e forti' né di quella fertile stagione in cui nacque la Democrazia Cristiana.

Se di presenza dei cattolici in politica si vuol discutere, partiamo dai fatti. I cattolici ci sono e sono presenti anche ai livelli apicali del nostro sistema politico. I cattolici ci sono e sono presenti nei variegati gangli della vita sociale del Paese. Sono presenti nelle istituzioni, sono presenti nei partiti, sono presenti e attivi nei corpi intermedi che più si adoperano sul fronte della solidarietà. Non sono più presenti in forma unitaria, ma a ben vedere non lo sono mai stati. Eppure oggi qualcuno sostiene, non a torto, che questa presenza assai diffusa si sia, nei fatti, rovesciata in quella che viene percepita come la 'grande assenza' che mortifica l’attuale modo di fare politica.

Gli appelli di papa Francesco e della presidenza della Cei sembrano rivolgersi a una platea di cattolici che, ormai da decenni, soffre di una sorta di analfabetismo di ritorno che impedisce ai cattolici stessi di ascoltare e interpretare le preoccupazioni della gerarchia avviando percorsi di presenza che siano rivolti non a occupare posti e posizioni, ma generare processi partecipativi in cui l’appello che viene dai vertici si trasformi in progetto di innovazione di una presenza adeguata ai tempi che stiamo vivendo. Non possiamo dimenticare, e non è necessario che ce lo ricordino, che viviamo in una società sempre più secolarizzata. Non possiamo dimenticare la frammentazione che attraversa il mondo cattolico, non possiamo dimenticare che i vertici della Chiesa negli ultimi decenni hanno svolto un ruolo che non gli è proprio, supplendo al silenzio del laicato cattolico. Non possiamo dimenticare che lo spazio della politica non è né più né meno che uno spazio come gli altri, di quel mondo che la 'Chiesa in uscita' auspicata da papa Francesco, dovrebbe incontrare e evangelizzare.

Allora mi permetto di porre quella che mi pare essere la questione di fondo su cui interrogarsi. Si può pensare di dar seguito alle richieste dei vertici se non si pone mano a una revisione dei percorsi educativi che creano la coscienza di un’appartenenza ecclesiale? Parrocchie, gruppi, associazioni, movimenti cattolici educano a quella dinamica che genera coscienze rinnovate capaci di interpretare e vivere il cambiamento o si propongono come mere organizzazioni che, invece di spingerti a uscire, avendoti dato gli strumenti per navigare i tempi nuovi, ti chiudono in un 'cerchio protetto' in cui lo strumento aggregativo, nato come mezzo, diventa fine in se stesso?

Quale spazio, ad esempio, fuori e lontano da ogni retorica declamatoria ha oggi la dottrina sociale della Chiesa negli ambienti appena menzionati? Se il cattolicesimo italiano, anche nelle sue forme organizzate, naviga sempre più verso il 'self service' come si può pensare che questo non si rifletta nelle scelte e negli orientamenti che costituiscono la sfera politica. Senza un laicato cattolico che viva 'dentro le cose del mondo' la propria coscienza rinnovata dall’incontro con un’esperienza di fede il risultato non può essere altro che la confusione che al momento sembra regnare.

Sociologo, Università della Calabria

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