venerdì 26 luglio 2019
Le scelte su inquinamento o rifiuti generano una discriminazione sociale. Contro il rischio dell’«ecorazzismo» decisioni più partecipate e condivise
Le scelte su inquinamento o rifiuti generano una discriminazione sociale Contro il rischio dell’«ecorazzismo» decisioni più partecipate e condivise

Le scelte su inquinamento o rifiuti generano una discriminazione sociale Contro il rischio dell’«ecorazzismo» decisioni più partecipate e condivise

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Si dice che l’Est di Londra, la zona più povera della capitale britannica, sia stata condannata ai mali che tutt’oggi l’affliggono, primi fra tutti criminalità, disoccupazione e dispersione scolastica, dalla rivoluzione industriale e dai 'Westerlies', i venti che spirano sulla città da occidente verso oriente. È per proteggere i ricchi dal fumo delle fabbriche a carbone trasportato nell’aria lungo questa precisa traiettoria che, tra il 1817 e il 1881, le abitazioni destinate alla classe operaia sono state concentrate proprio a Est, laddove i veleni spinti dal vento avrebbero potuto cadere al suolo senza mettere a rischio la salute dei borghesi.

Dopo essere stato a lungo un semplice aneddoto, il nesso tra povertà e inquinamento che ha caratterizzato la storia di Londra ha acquisito evidenza scientifica solo tre anni fa quando Stephan Heblich e Yanos Zylberberg, ricercatori dell’Università di Bristol impegnati in un progetto realizzato in collaborazione con l’ateneo di St’Andrews, hanno dimostrato, dati alla mano, che quella sproporzionata esposizione all’inquinamento, vecchia quasi 150 anni, ha generato un’ingiustizia sociale mai colmata, nonostante le massicce opere di riqualificazione urbana. I numeri spiegano che a Est, per esempio, i crimini legati a droga e violenza è sempre stato più alto del 20% rispetto a quello registrato in altri quartieri.

Povertà che si aggiunge a povertà. Declinazione locale, verrebbe da dire, del cosiddetto 'apartheid climatico' globale. Il caso londinese, ovviamente, non è l’unico. Città, nazioni e continenti sono stati per secoli flagellati da politiche industriali e sociali intenzionalmente discriminatorie nei confronti delle fasce più deboli della popolazione ma è soltanto alla fine degli anni 70 che si è cominciato a parlare, dichiaratamente, di (in)giustizia ambientale. Inquadrato, genericamente, nella convenzione di Stoccolma del 1976 sullo sviluppo sostenibile, il concetto ha acquisito spessore giuridico e statistico grazie allo statunitense Robert Bullard, il padre del movimento che combatte l’'ecorazzismo' in tutto il mondo.

Era il 1979 quando Bullard, oggi docente alla Texas Southern University, dimostrò, nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria sullo smaltimento di rifiuti tossici, che l’82% dei siti scelti nella città di Houston come discariche era localizzato nei quartieri afro-americani. Ed è grazie a quella battaglia, combattuta in punta di diritto con l’appoggio della moglie avvocato, che Bullard è riuscito per la prima volta nella storia a far rientrare la 'discriminazione ambientale' nell’ambito degli illeciti perseguibili dalla legge.

Non occorre scomodare i luminari del diritto per riconoscere quando ingiusta, contro l’uomo e contro il Creato, sia per esempio l’esposizione ai pesticidi di chi lavora nelle piantagioni di cotone di India e Uzbekistan o, guardando in casa nostra, il lento ma costante avvelenamento da rifiuti tossici della cosiddetta 'Terra dei fuochi', tra Napoli e Caserta. In entrambi i casi, così come in tanti altri, si tratta di abusi dalle conseguenze mortali. Gli effetti delle scelte di gruppi ristretti di potere, pubblico o privato, ispirate al principio del 'non nel mio giardino' si misurano in termini di esposizione a cancro, diabete, Alzhaimer, obesità infantile e infiammazioni croniche.

Ma non solo. Quello che la statistica sta pian piano mettendo a fuoco è che, in Italia come in Europa e nel resto del mondo, la discriminazione ambientale rischia di cristallizzare la povertà, condannando milioni di cittadini a sentenze di rassegnata miseria sociale e culturale. «L’argomento è ancora poco studiato – spiega Joanna Barnes, ricercatrice dell’Università West of England – ma di sicuro possiamo dire che l’esposizione all’inquinamento è un moltiplicatore di povertà». I codici di avviamento postale sono oggi uno dei più efficaci indicatori di salute e benessere di una comunità, rivelatori di po- litiche (buone o cattive) stratificate nel tempo. Per usare l’espressione di Laura De Vito, ricercatrice di origini salentine dell’Università del West of England, l’esposizione all’inquinamento è infatti frutto di una 'sistematica discriminazione' su base sociale, etnica e razziale, per questo molto difficile (ma non impossibile) da scardinare. «Persino un intervento pensato in buonafede per ridurre l’inquinamento in maniera radicale – spiega – corre il rischio di creare ulteriore ingiustizia sociale. Impedire, per esempio, la circolazione delle auto più inquinanti è un provvedimento che mette in difficoltà quanti non possono permettersi di cambiare la vecchia auto a diesel, né tantomeno di comprarne una elettrica».

Come uscirne? «L’ingiustizia ambientale – spiega la ricercatrice – riflette uno squilibrio sociale e politico, locale e governativo, agevolato dal fatto che riguarda persone che hanno meno accesso ai processi decisionali». Puntare sul coinvolgimento della popolazione più esposta ai rischi dell’inquinamento, ma meno rappresentata a livello politico, locale e governativo, potrebbe essere una delle soluzioni. La consapevolezza gradualmente maturata negli anni, sulla scia dei casi più gravi di discriminazione ambientale, come lo è stato in Italia quello dell’Ilva di Taranto, ha già portato a delle migliorie in questa direzione. La Convenzione di Aahrus, per esempio, stabilisce dei livelli minimi di partecipazione pubblica e informazione ambientale per ogni nuovo progetto. È, in sostanza, l’estensione del principio legale del 'right to know' (diritto a sapere) al 'right to have a say' (diritto ad avere voce in capitolo).

«Il problema – sottolinea – è che la Convenzione stabilisce però solo dei livelli minimi di partecipazione, poi spetta a chi attua la legislazione andare oltre, e purtroppo spesso, nella pratica, il modo in cui sono portate avanti le consultazioni non permette alle comunità più svantaggiate e isolate, che incontrano limiti strutturali, di avere una vera influenza ». «La soluzione – conclude – è tornare al concetto base di sviluppo sostenibile, considerare i problemi in maniera integrata a livello ambientale, sociale, economico e, aggiungerei, politico. Importante inoltre è non agire solo di fronte alle emergenze ma affrontare le cronicità attuali in maniera programmatica ».

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