venerdì 24 luglio 2015
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Obbedendo alla vecchia massima di Oscar Wilde, secondo cui «il miglior modo di resistere ad una tentazione è quello di cedervi», la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dunque ceduto alla tentazione di dire la sua sul dibattito italiano – già affollato e complesso – circa la disciplina giuridica delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Dato che gli argomenti pro e contra il riconoscimento delle unioni omosessuali sono stati esplorati da vari punti di vista e che ad essi la sentenza del 21 luglio nel caso "Oliari and others v. Italy" non aggiunge nulla di nuovo, si può forse ragionare su questa sentenza rovesciandone la prospettiva: il dito puntato dai sette giudici della IV sezione della Corte sull’assenza di riconoscimento legale delle predette unioni in Italia è un’occasione per interrogarsi su chi punta il dito, cioè sulla Corte di Strasburgo. Qual è la legittimazione della Corte per intervenire sul dibattito italiano in materia?La risposta è solo apparentemente ovvia, visto che un trattato internazionale (la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma nel 1950 e più volte modificata, in particolare dal protocollo di Strasburgo del 1994) riconosce a tale Corte il potere di pronunciarsi sulla violazione da parte degli Stati membri dei diritti individuali garantiti dalla Convenzione stessa, fra l’altro su richiesta di chi affermi essere stato leso un suo diritto. E fra tali diritti vi è quello al «rispetto della vita privata e familiare», previsto dall’art. 8 della Cedu: la Corte ha ritenuto che tale diritto sia leso dall’assenza nell’ordinamento italiano di un istituto giuridico volto a riconoscere formalmente le unioni fra persone dello stesso sesso.Negli ultimi 15 anni la Corte europea ha adottato una linea giurisprudenziale che nell’interpretazione dell’art. 8 ha dato protezione alle più svariate domande di "nuovi diritti", in particolare nella sfera sessuale e riproduttiva. Diritti non riconosciuti da alcuna Costituzione nazionale (salvo, da ultimo, quella irlandese, dopo il referendum dello scorso maggio) né da convenzioni internazionali e che invece, in una serie di casi, erano state riconosciute da leggi nazionali o da sentenze creative di giudici statali. Fra essi rientrano vari diritti di persone omosessuali e transessuali. La Corte, tuttavia, non si è spinta a riconoscere un diritto al matrimonio gay, in quanto un’altra disposizione della Cedu delimita in maniera ben chiara la portata soggettiva del diritto di sposarsi, riconoscendolo a «uomini e donne», con un testo che dovrebbe lasciar intendere che l’eterosessualità è condizione per l’esercizio del diritto al matrimonio. La base è stata dunque ravvisata nell’art. 8, vero e proprio "calderone" da cui è possibile ricavare qualsiasi diritto piaccia ai giudici di Strasburgo.L’esistenza di un obbligo positivo degli Stati di riconoscere legalmente le unioni fra persone dello stesso sesso è una regola ad hoc, creata dalla IV sezione in questa occasione: la sentenza cita come precedenti i recenti casi "Schalke and Kopf v. Austria" e "Vallianatos and others v. Greece", ma in tali sentenze non si afferma affatto un simile obbligo: la Corte si è pronunciata solo sulla differenza fra unioni omosessuali e matrimonio e sulla legittimità dell’esclusione delle coppie omosessuali dalla disciplina delle unioni di fatto. Dunque è inesatta la tesi di chi (come il professor Rodotà su "la Repubblica" del 22 luglio) considera scontata la conclusione della Corte.Del resto, alcuni meccanismi hanno sinora consentito alla Corte di graduare il proprio attivismo giudiziale nell’interpretazione dell’art. 8: da un lato il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati sulle questioni eticamente controverse; dall’altro il consenso europeo su una certa soluzione legislativa. Proprio l’uso (il cattivo uso) di queste due valvole (che costituiscono un eccellente esempio della tecnica ermeneutica cara al dottor Azzeccagarbugli, secondo cui «la legge, a farla cantar bene, nessuno è reo e nessuno è innocente») può spiegare la conclusione cui è giunta la sentenza del caso Oliari.La Corte, per escludere che lo Stato italiano disponga di un margine di apprezzamento sul riconoscimento delle unioni omosessuali, rileva l’esistenza di un "consenso europeo" in questa direzione. Ma tale consenso in realtà non esiste. Non solo in molti Stati dell’Europa centro-orientale non sono previsti riconoscimenti delle unioni di fatto, ma anche laddove il riconoscimento esiste (attualmente in 24 Stati su 47) – almeno nella forma dell’unione civile – si tratta di una acquisizione recente (meno di venti anni) che è sempre maturata a fronte di profonde divisioni nella società e nell’opinione pubblica dei Paesi che hanno adottato tale soluzione (si pensi per tutti alle enormi resistenze politiche e popolari contro il Pacs francese nel 1998 e a quelle contro la Lebenpartnerschaft tedesca nel 2001). È dunque difficile sottrarsi alla conclusione che la sentenza di Strasburgo sia nella sua essenza una decisione politica, nel senso di una scelta non imposta da alcun criterio giuridico predeterminato, ma frutto unicamente della libera volontà dei suoi autori. I quali, però, non sono forniti di una adeguata legittimazione democratica e operano in un ordinamento internazionale nel quale, oltre a garantire i diritti previsti dalla Convenzione, dovrebbero rispettare l’autonomia degli Stati di regolare secondo le loro scelte le questioni che non sono state oggetto di un accordo (e che nel senso originario dell’art. 8 Cedu non fosse incluso il diritto al riconoscimento legale delle coppie omosessuali è talmente ovvio da non richiedere alcuna argomentazione).Di fronte alla sentenza di Strasburgo la domanda torna a essere la stessa già formulata in altre occasioni davanti ad altri esempi di attivismo giudiziale: su casi nei quali le opinioni pubbliche sono divise (e gli Stati, in un contesto internazionale, prevedono soluzioni diverse) e manca una base giuridica chiara, chi dovrebbe decidere? Gli elettori con referendum, i parlamenti con legge o i giudici (ordinari o costituzionali) con sentenze audacemente creative? E qual è, in particolare, la legittimazione di un giudice internazionale, che dovrebbe assicurare solo il rispetto di un minimo comune in materia di diritti fondamentali, rispettando le diverse sensibilità prevalenti nei diversi Stati?Dato che il panorama dell’attivismo giudiziale è già affollato a livello statale (ove pure non mancano i casi di arbitrio giudiziale, che non ha certo bisogno di una dimensione multilevel), c’è da chiedersi se, in questo contesto, la Corte di Strasburgo non sia ormai un soggetto produttore di squilibri nella tutela dei diritti in Europa. Forse, a questo punto, l’Italia riuscirà a individuare una propria «via» (non matrimoniale) per regolare le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Ma l’opinione pubblica italiana avrebbe bisogno di un serio dibattito – come quello in corso nel Regno Unito – sull’utilità del sistema di protezione dei diritti umani del Consiglio d’Europa. Che ovviamente non è l’Unione Europea – oggi così spesso oggetto di critiche da parte della gauche caviar e dei populisti di destra e di sinistra –, ma un sistema a esso parallelo circa i cui costi e benefici occorre appunto iniziare a riflettere.
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