lunedì 1 febbraio 2010
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«In questo momento siamo ancora presi dai lavori più immediati: seppellire i morti, recuperare i corpi sotto le macerie, visitare le vittime, rispondere alle innumerevoli richieste di aiuto. Venti giorni dopo, i riflettori cominciano a spegnersi. Gli haitiani saranno ancora una volta dimenticati?» È quasi una lettera da Haiti, l’intervista al nunzio apostolico Bernardito Auza (che pubblichiamo a pagina 3). Lettera di dolore e di speranza, come intrisa delle immagini, delle facce, delle rovine che il nunzio affronta ogni mattina. Ormai i giornalisti e le troupe dei network internazionali se ne sono quasi tutti andati; e il clamore dell’apocalisse lascia il posto a una quotidianità miserabile e oscura (dalla quale vengono fatti emergere, spesso ingigantiti ad arte, solo gli episodi di violenza). E come in una famiglia in cui ci sia stato un lutto, è quando gli ospiti dopo il funerale se ne vanno e si torna a casa, soli, che si fronteggia davvero il dolore e il vuoto.Nelle parole di Auza si respira questo timore di abbandono, mentre attorno a lui Port-au-Prince è perfino al di sotto del ground zero. Perché ground zero è la terra rasa e annientata. Quella città invece è montagne di macerie, e corpi, sotto, ancora inestricabilmente avvinghiati ai detriti. È terra di caos, e di miracoli: dove tre giorni fa, quindici dopo il terremoto, una ragazza di sedici anni è stata estratta viva dalle rovine. (Quindici giorni in una nicchia di cemento, che deve esserle sembrato un loculo, in un incubo infinito. Una bottiglia di limonata, chissà come, in mano, centellinata goccia a goccia. E per due settimane solo il buio: quindici giorni, fatti soltanto di notti. Poi, quella fessura di luce, quelle braccia protese verso di lei. Deve essere stato come nascere di nuovo. La terra spezzata e sconvolta di Haiti ha restituito, quasi dato alla luce una ragazzina.) Miracoli grandi e miracoli piccoli, che potresti sbadatamente dire banali. Le cronache da Haiti raccontano che per le strade di Port-au-Prince sono comparsi dei barbieri ambulanti: una sedia, il rasoio, e si lavora. E che nelle poche botteghe aperte la gente compra chiodi. E che si fa la coda per ricaricare il cellulare alle batterie portatili, sui carretti. Farsi la barba, riparare un letto, comunicare: piccoli essenziali bisogni si fanno strada fra le rovine. La vita che vuole riprendere, dai suoi gesti più umili. (Sembra di vedere un torrente che, sbarrato da una frana, lentamente si scava altre vie, per rivoli sottili tende di nuovo alla sua meta).Ma questa istintiva domanda di vivere di un popolo – di vivere ancora – non può farcela da sola. Il nunzio auspica un "piano Marshall" per Haiti, come fu per l’Italia e l’Europa distrutte e in ginocchio alla fine della guerra. Un piano ampio, coordinato, di lungo respiro. Che pensi alle strade, ma anche alle scuole, e agli ospedali. In una ricostruzione che strappi questa terra a un destino di sottosviluppo cui finora è stata come inesorabilmente condannata.«Saremo ancora una volta dimenticati, ora che si sono spenti i riflettori? Non sarebbe una sorpresa, se fosse così», dice, sincero e disarmante, il nunzio. Memore della sottomissione di una gente che sente "sua" a endemiche povertà, a governi iniqui, a forzate migrazioni per sopravvivere.È una frase da popolo di poveri quella pronunciata da Auza: se ci si dimenticasse di noi, non sarebbe una sorpresa. E però, che accorata preghiera: non si spenga, insieme ai riflettori, la solidarietà per la nostra gente. Domanda semplice, umile, di chi non ha più niente. Come una mano tesa e vuota. Anche se i titoli ormai parlano d’altro, e non è più notizia lo sfacelo di Port-au-Prince, la mano vuota della gente di Haiti, dietro, ormai nel cono d’ombra dei media e dell’emozione collettiva, attende. Fedele e ostinata, come un povero vero sulla soglia di una casa agiata. Che non grida, non bussa, ma tenace aspetta: che la porta si apra, che qualcuno finalmente lo veda e lo accolga.
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