Contro le violenze di gruppo una pedagogia della narrazione
mercoledì 12 gennaio 2022

Adesso abbiamo i resoconti della polizia sui gruppi di ragazzi che si riunivano in Piazza Duomo a Milano per molestare le ragazze che passavano. Possiamo tentare di rispondere a qualcuna delle tante domande che s’affacciano al cervello: chi sono? Da dove vengono? Cosa vogliono?

Insomma, possiamo tentare una specie di 'psicanalisi a distanza' del gruppo, non dimenticando però che 'a distanza' e 'del gruppo' sono due condizioni che rendono insicura e debole una psicanalisi. Ma tentiamo. Anzitutto, sono in gruppo. Un gruppo di ragazzi non è la somma di quei ragazzi, perché entrando in un gruppo ogni ragazzo mostra i lati peggiori di sé, la violenza, la prevaricazione, l’istinto di rapina (perché nel gruppo rubano anche). Il gruppo dà al ragazzo quel senso di forza e d’impunibilità che il ragazzo da solo non ha. Il ragazzo che nel gruppo incontrando una ragazza allunga le mani per toccarla sul seno, da solo non lo farebbe.

Le madri hanno ragione quando, leggendo il referto dei carabinieri, su quel che ha fatto il loro figlio in gruppo, lo difendono dicendo: 'Mio figlio non è così'. Ma un conto è il figlio da solo, altro conto il figlio in gruppo, un conto è il figlio a casa, altro conto il figlio in piazza. Il figlio che da solo si sente debole e rispetta la società, quando entra in un gruppo si sente forte e vuol mostrare la sua forza. A chi? Alle ragazze. Le ragazze diventano un problema più importante se i ragazzi sono figli di immigrati e le ragazze sono di famiglie italiane o europee. Com'è successo in questo caso delle violenze sessuali in piazza Duomo a Milano. I ragazzi immigrati, o italiani di seconda generazione, invidiano ai ragazzi del luogo tutti i beni che il luogo offre, e vorrebbero prenderseli, e fra tutti il più prezioso dei beni sono le ragazze. Appena si trovano in gruppo, questi ragazzi, usciti di casa senza un obiettivo, individuano nelle ragazze l’obiettivo da raggiungere, e puntano su quelle.

Le ragazze non lo capiscono a priori, perciò si dicono sempre colte di sorpresa. Ci credo. Del resto, le telecamere lo raccontano. Le telecamere non forniscono foto isolate, forniscono racconti concatenati. Ne sto leggendo uno. I ragazzi 'circondano' una ragazza, le bloccano ogni via di fuga, la fanno prigioniera, e quando l’hanno catturata la tirano per le braccia, la urtano per le spalle, esercitano il possesso: la rapinano nella borsetta e la palpeggiano. È violenza sessuale? Certo che sì, aggravata dalla presenza del gruppo. È violenza sessuale collettiva. Quando sarà andata via da lì, la ragazza si ricorderà quell’esperienza come un furto, di cinquanta euro, di cento euro? Ma no, la ricorderà come una violenza sessuale, la toccava chi voleva, e dove voleva, il suo corpo non era più suo. Chi viene espropriato del proprio corpo si sente schiavo e piange.

Chi s’impossessa del corpo altrui si sente padrone e ride. Le ragazze credono che se loro piangono i ragazzi si rattristano e le lasciano libere. Ma non va così. Se le ragazze piangono, i ragazzi si eccitano e insistono. Questa insistenza è un’aggravante. Esistono i filmati di queste scene, li hanno girati le telecamere che ormai son dappertutto, ma anche i ragazzi stessi, perché filmare una scena divertente vuol dire divertirsi anche dopo, quando si vuole, rivedendola. Dai filmati non è difficile risalire ai protagonisti. Ieri ne hanno interrogati 18. Per punirli? Certo, ma io spero che il primo scopo sia correggerli. Fin che si può. Quel che è uscito finora sulla stampa è uno storto racconto di vittoria, ragazzi che vincono, ragazze che piangono. Un racconto che crea imitazione. È adesso che crea la correzione: come piangono, come hanno paura, come si pentono. Bisognerebbe seguirli, non bisogna perderli di vista. La narrazione può essere pedagogica.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: