Con un macigno sulle spalle
mercoledì 26 ottobre 2022

Anche gli avversari più determinati riconoscono che a Giorgia Meloni non fanno difetto la coerenza e la veracità. Qualità che sono emerse (insieme a un’indubbia esperienza politica, a dispetto dell’ancor giovane età) dal discorso con cui la presidente del Consiglio ha chiesto la fiducia ieri alla Camera. Si può aggiungere anche la consapevolezza di avere, parole sue, «un macigno sulle spalle», ovvero l’enorme responsabilità di mettersi al timone della nave Italia «nel pieno di una tempesta» globale. È stato un intervento di ampio respiro, che ha cercato di non tralasciare nessuno dei temi dell’agenda di governo e della dialettica politica, interna, europea e internazionale. Settanta minuti scanditi da altrettanti applausi, tanto da spingere la stessa presidente – alle prese con l’emozione e con la tosse – a dire «grazie, anche meno» e a ironizzare con Matteo Salvini in romanesco: « Così famo le tre... ».

Questo la dice lunga sul tasso di entusiasmo che c’è nella maggioranza di centrodestra e, soprattutto, in Fratelli d’Italia. La sfida, ora, è riuscire a conservarlo. Non sono mancati il garbo istituzionale (verso Sergio Mattarella e Mario Draghi), il giusto e comprensibile orgoglio per essere la prima donna a guidare il Paese (accompagnato da una bella galleria di italiane di prestigio), i riferimenti spirituali e culturali (papa Francesco, san Giovanni Paolo II, Paolo Borsellino, Montesquieu), anche un filo di retorica di troppo, soprattutto nella insistita metafora marinaresca.

Sotto il profilo politico, Meloni si è impegnata innanzi tutto a presentarsi come una leader autenticamente conservatrice e non più post-fascista. Soltanto Gianfranco Fini, tra i capi della destra italiana, era stato altrettanto chiaro nel rifiuto del fascismo e delle leggi razziali, ma non nella veste di capo del governo e non in Parlamento.

Lei ha preferito declinare il patriottismo in termini risorgimentali e, certo, ha omaggiato la memoria dei ragazzi di destra caduti per mano di avversari politici in anni bui, che speriamo non tornino mai più. Ha rassicurato la Ue, ma al tempo stesso ha avvertito che non rinuncerà a combattere le regole che non condivide (si vedrà se costruendo strategie insieme ai Paesi dell’Est a trazione sovranista, che potrebbero risultare controproducenti, come ha chiaramente avvisato Draghi poco più di un mese fa), né accetterà forme più o meno esplicite di « vigilanza» sull’Italia.

Rispetto poi alla guerra in Ucraina, forse troppo preoccupata di garantire solidità atlantista agli alleati della Nato e a fugare i sospetti per qualche venatura filoputiniana emersa nella sua coalizione, ha completamente dimenticato di pronunciare la parola «pace», anche solo come prospettiva a cui anelare.

Per quanto riguarda i contenuti programmatici, va registrata una sostanziale continuità con quanto annunciato in campagna elettorale e un promemoria agli alleati: la coalizione ha vinto, ma Fdi ha vinto di più e lei ha ben chiaro ciò su cui s’è impegnata. Incluso il raggiungimento di due mète suggestive e dirompenti come il presidenzialismo (se possibile con il contributo delle opposizioni) e l’autonomia regionale differenziata. Nessuna sorpresa, tuttavia non avrebbe guastato un riferimento esplicito alla diffusa precarietà del lavoro dipendente e alla disabilità, temi comunque in qualche modo ravvisabili in altre “macrocategorie” citate dalla presidente Meloni. Segnali promettenti sono arrivati sulla famiglia e sulla lotta alla mafia. C’è più di qualcosa da chiarire, invece, sul fronte della giustizia.

«Certezza della pena» e «nuovo piano carceri» possono andare bene solo se abbinati alla certezza del diritto e a politiche tese al recupero sociale dei condannati, così come prescritto dalla Costituzione. E anche in tema di immigrazione.

La materia è troppo complessa e complicata per essere affrontata con metodi ruvidi e persino disumani, sostanzialmente già tentati (e già falliti) in passato, o con un futuribile piano, seppure lodevole nelle intenzioni, per «aiutarli a casa loro». La stessa premier, nella replica a Montecitorio, ha chiesto di essere giudicata per ciò che farà. Giusto. Per adesso le va dato atto, come si diceva, della consapevolezza di dover « ricucire » ( verbo che ha utilizzato due volte) un Paese dove crollano cimiteri, tribunali, aule universitar ie, inter i pezzi di territorio. Un Paese diseguale, scucito nel tessuto sociale, economico, occupazionale e, sì, politico. Un Paese che attende risposte. E lei ha il potere-dovere di darle.

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