mercoledì 7 febbraio 2018
Caro direttore, su "Avvenire" di giovedi 1 febbraio Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi hanno scritto un bell’articolo sulle carenze delle politiche attive per il lavoro nel nostro Paese
Punti deboli nelle politiche attive per il lavoro
COMMENTA E CONDIVIDI

Caro direttore,
su "Avvenire" di giovedi 1 febbraio Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi hanno scritto un bell’articolo sulle carenze delle politiche attive per il lavoro nel nostro Paese, denunciando in particolare le debolezze nei campi della formazione, della riqualificazione e dell’orientamento dei giovani. Lo spazio di un un’editoriale non è quello di un’analisi più ampia e approfondita, e dunque in quel testo è mancato lo sviluppo di un esame altrettanto critico dei nostri servizi all’impiego in materia di incontro domanda-offerta di lavoro, e i due commentatori si sono limitati a ricordarci amaramente che il canale privilegiato per cercare e per trovare lavoro è la rete di conoscenze di parenti e amici. Negli altri Paesi il sistema pubblico di collocamento è invece molto più attivo, utilizzato ed efficace. I motivi di questa arretratezza sono diversi e alcuni di questi sono stati toccati nell’articolo citato. Vorrei ricordarne altri due che sono, secondo me, decisivi. Essi fanno riferimento, primo, alle risorse dedicate al servizio pubblico e, secondo, alla "governance" di questo stesso servizio.

Primo: le risorse. Per i servizi per il lavoro che vengono svolti dai nostri Servizi per l’impiego (Spi), l’Italia spende annualmente circa 500 milioni di euro, a fronte dei 9 miliardi spesi dalla Germania e dei 5 miliardi spesi dalla Francia; il rapporto tra il numero dei disoccupati e il numero di addetti ai Centri per l’impiego (Cpi) è di oltre 300 unità nel nostro Paese (un addetto per 300 disoccupati) mentre è di 21 in Germania, di 57 in Francia e di 32 nel Regno Unito. Bastano queste scarne cifre per chiarire che quando si parla di politiche del lavoro in Italia, vale il detto "non si fanno le nozze coi fichi secchi".

Noi spendiamo risorse comparabili a quelle dei grandi Paesi per gli ammortizzatori sociali, i trasferimenti di reddito e gli incentivi monetari, ma pochissimo per i servizi. È un carattere diffuso del nostro welfare. Si preferisce dare soldi, ma pochi servizi, quando quest’ultimi sarebbero forse più efficaci per aiutare le persone e i lavoratori a uscire dallo stato di bisogno e di mancanza di lavoro. Secondo: la "governance". La proposta di modifica della Costituzione che è stata bocciata con il referendum del 4 dicembre, prevedeva, nel nuovo Capitolo V, il trasferimento delle competenze legislative in materia di lavoro, in via esclusiva, allo Stato, così come avviene nei principali Paesi Europei, come Francia e Germania. Soprattutto nei Paesi più sviluppati, le politiche attive accompagnano e si integrano con le cosiddette "politiche passive", cioè con gli interventi di sostegno del reddito delle persone in difficoltà, senza lavoro o in cerca di ricollocazione.

Questi lavoratori devono essere certamente aiutati in termini economici, ma devono essere anche aiutati a cercare un nuovo posto. La ricerca attiva del lavoro è, in tutti i Paesi, condizione per ottenere il sostegno pubblico. Da noi la cosiddetta "condizionalità" è prevista, ma non è quasi mai messa in pratica. Una maggiore presenza dell’operatore pubblico non significa rinunciare alle iniziative private, quelle attuate dalle agenzie di somministrazione e di intermediazione, che svolgono un ruolo utilissimo. Ma anche l’operatore pubblico deve avere un proprio peso, proprio perché all’operatore pubblico è richiesta la funzione più importante, quella dell’indirizzo, del controllo e della valutazione della attività che hanno rilevanza pubblica, anche di quelle affidate all’operatore privato.

Ma queste funzioni, per essere svolte in modo efficace, devono essere sostenute da una valida rete di servizi dislocati sul territorio. La gestione dei Cpi, rimane di competenza delle Regioni. Il rischio è di avere una rete spezzettata in una ventina di contesti istituzionali ciascuno dei quali si ispira a diversi modello di intervento nel mercato del lavoro. Con la conseguenza che solo con grandi difficoltà le reti regionali interagiscano tra di loro e con le strutture nazionali, come l’Anpal (Agenzia nazionale per le Politiche del lavoro) o con l’Inps che gestisce gli ammortizzatori sociali. Tramontata la riforma costituzionale, non possiamo rassegnarci a questa frammentazione.

Occorre un forte coordinamento tra strutture regionali e strutture nazionali, senza il quale partiamo con un grave handicap nella prospettiva di iniziative europee che noi stessi, tra l’altro, sollecitiamo. Infatti stiamo giustamente rivendicando l’istituzione di un sussidio di disoccupazione funzionante a livello europeo, che può aprire la strada all’Europa Sociale e a un bilancio economico europeo da gestire in condizioni di diffuse difficoltà economiche. Non possiamo essere in prima fila a sostenere questa importante iniziativa e non riuscire a fare decisivi passi in avanti con le politiche attive che ci mettano alla pari degli altri Paesi europei con cui vogliamo condividere gli interventi di sostegno dei redditi in caso di disoccupazione.

*Deputato Pd già sottosegretario al Lavoro

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: