venerdì 2 marzo 2012
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«Guarda che è solo la fine del primo tempo». A noi, a tutti noi che oggi lo piangiamo e che facciamo a gara nel ricordare i suoi tanti successi, Lucio Dalla avrebbe detto così. Aggiungendo alla frase uno dei suoi sorrisi sghembi. Lucio amava la leggerezza. Amava scherzare. Amava stupire e, a volte, anche prendersi beffa dei suoi interlocutori. Era un clown. Raffinato, colto, timido e con punte di tristezza. Ma un clown. «Signorina, che piacere fare le interviste con te – ripeteva a una famosa deejay –, sei una delle poche più basse di me». Poi si aggiustava i suoi guanti da clochard, stringeva le spalle in una delle sue giacche sempre troppo grandi e usciva di scena. Su una cosa potevi stare certo, con Lucio non ti stancavi mai. Mentre finiva una cosa, ne aveva già in mente altre tre. Telefonava a Ligabue per predirgli il successo di una sua canzone e subito metteva giù (in fondo era un vero timido). E subito dopo metteva sotto contratto un giovane, al quale magari ghermiva qualche idea che faceva sua. «Lucio è un polipo – dicevano i colleghi –. Afferra tutto quello che gli capita a tiro». Appena conobbe l’allora arcivescovo Milingo, decise che doveva produrre un suo album. Anzi, due. E se qualcuno storceva il naso, lui alzava le spalle e sorrideva. Più lo criticavano e più si divertiva. «Era uno scopritore d’anime», dice Samuele Bersani, che lui lanciò. Una notte gli telefonò Ron. «Lucio, ho scritto un pezzo. L’ho proposto ad Antonacci ma lui ha detto che è orrendo. Mi dici cosa ne pensi?». Bastarono due minuti al telefono, con un audio che faceva pena, per far decidere a Dalla che doveva incidere quel brano «orrendo». Era «Attenti al lupo». Vendette 1.400.000 copie. Quasi a volersi far perdonare dagli impegnati, in chiusura di quell’album inserì «Comunista», una canzone, difficile e durissima, che gli era rimasta nel cassetto tra quelle scritte anni prima con Roberto Roversi. Il poeta con cui aveva realizzato capolavori come «Anidride Solforosa» e «Nuvolari». E che si era separato da Dalla nel 1977 con una polemica feroce: «Lucio ha voluto semplicemente essere lasciato in pace a cantare il niente». Quello che Roversi – e tanti impegnati di allora – non avevano capito, era che Dalla aveva intuito che la troppa ideologia soffocava la musica. Lui voleva parlare a tutti. Agli «Anna e Marco» di sempre. Ai fan di Ayrton Senna e a quelli della Tosca. E pazienza se certi suoi album restano degli autentici sbandamenti artistici in una carriera costellata di bellezza. Lui era un funanbolo. Un comunicatore. L’uomo che ti stupiva parlando – a 69 anni – di futuro tecnologico, «che ci cambierà la vita». E mentre lui parlava tu ti rivedevi bambino, davanti alla tv in attesa degli «Eroi di cartone» (con la sigla di Lucio, ovviamente; come più avanti i «Lunedì film») o mentre lui cantava «4/3/1943» a Sanremo. Tu crescevi. E lui c’era sempre. Da 50 anni e più sulla scena. Prima col jazz (con l’amico Pupi Avati), poi con i Flipper di Edoardo Vianello e poi da solo. Quando uscì il suo album «Henna», Lucio decise di presentarlo di persona, andando a casa dei critici. Con uno fece colazione, con l’altro merenda, con un alto pranzò e con l’ultimo consumò la cena. Sapeva che quelle tante parole sarebbero finite in poche righe, ma ci teneva a dirle lo stesso. Voleva esser capito. Per il suo album «Ciao», invece, portò tutti i giornalisti sulla spiaggia di Rimini. Consegnò a ognuno secchiello, paletta e rastrello, e poi si mise a parlare di argomenti serissimi. Provate voi a fare domande sulla guerra in Bosnia (uno dei temi del cd) rigirando tra le mani una paletta per la sabbia da bambini. Invece, aveva ragione lui. Lui che credeva davvero che questa vita andasse amata con un cuore bambino. Spremuta fino alla sua ultima goccia, tra un gioco (serissimo) e l’altro, allungando magari una mano all’amico Gianni Morandi caduto nell’oblio (e tornato grande nell’88 grazie al tour con Dalla). «Lucio credeva in Dio ed era praticante», ha ricordato ieri l’amico Michele, suo portavoce da 40 anni. Da bolognese amava la Madonna di San Luca. E da (quasi) pugliese, padre Pio. Spesso con Dio litigava e abusava della sua pazienza. Ma gli voleva bene, proprio come a quel padre che aveva perso troppo presto. A soli sette anni. Ora ha ritrovato tutti. Anche mamma Iole (che volle ritratta sulla copertina dell’album «Cambio») e zio Ariodante, «che negli anni 40 e 50 furoreggiava come cantante». Poco prima che arrivasse Lucio e accendesse una luce nuova nella musica italiana.
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