giovedì 2 gennaio 2020
Nell’era post-moderna gli esseri umani vivono come turisti in un eterno presente. La salvezza è imparare ad essere pellegrini che camminano coraggiosi verso il domani
Ci serve un'utopia ragionevole per poter guardare al futuro
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Fra le metafore più riuscite di Zygmunt Bauman per caratterizzare la condizione dell’uomo post moderno c’è quella del turista. Non è un caso infatti che durante le vacanze natalizie si spostano sempre più persone, arrivando ad oggi a più di sei milioni di italiani fuori casa, spesso verso mete lontane. Tale status sembra caratterizzarsi attraverso una percezione distorta del tempo, tipica di quanti si spostano altrove, ben sapendo che non si rimarrà a lungo dove si è arrivati. Disponendo soltanto del proprio tempo biografico per seguire il percorso che si è scelto, il turista vive in un presente senza durata, passando da un luogo ad un altro per soddisfare la sua curiosità, il suo divertimento, la sua voglia di vivere e il suo desiderio estetico di accumulare esperienze. Il turista paga per questa sua libertà, compra il pacchetto all inclusive e non si mescola con i residenti, se non per uno scatto fotografico. Per lui il tempo è rotto, è il tempo vuoto degli orologi ( Walter Benjamin) che riempie di momenti senza continuità e senza scopo, così da riportare a casa una interminabile serie di attimi slegati uno con l’altro, fissati da molte foto, ma privi di passato e vuoti di futuro.


Perché la società contemporanea fatica a costruire una narrazione positiva dell’avvenire?

Anche noi post moderni viviamo così: l’uomo si perde volentieri nell’ambiente che lo circonda, sta di fronte al mondo come ad un oggetto producibile, ma smarrisce il senso della continuità del tempo, accelerando forzatamente le ore e perdendone la durata, dal momento che per lui il futuro non è che il vuoto prolungamento del presente ed è solo quest’ultimo che ci è dato da vivere. Mi si dirà che altri e più concreti sono i motivi della perdita del futuro: l’incertezza del domani, la mancanza di sicurezza del lavoro, la fluidità delle relazioni intersoggettive ed altro ancora. Tempi difficili, si dirà, che poco o nulla possono presagire sul bene del futuro. C’è da domandarsi però come vivevano il domani i nostri progenitori, usciti dall’immane disastro della guerra, con le città in rovina, con i beni dissolti, con i dolori accumulati. Eppure ... Per loro il futuro era là, non certo a portata di mano, ma bastava attrezzarsi con fiducia e ricominciare ... Ecco appunto: non mancavano di futuro perché vivevano agganciati al passato e carichi di tensione verso il nuovo che era tutto nelle loro mani ... Ed oggi quale sarà l’andamento del futuro, se delusi e scoraggiati guardiamo altrove con gli occhi del qui? Occorre perciò riprendersi il senso del tempo, l’esperienza cioè della sua durata, della sua completezza, misurata dal senso delle cose, dal valore delle relazioni, dal rispetto degli eventi che ci accadono e ai quali bisogna garantire un significato.

A pensarci bene, non è Dio, ma l’uomo libero che è signore del tempo. A noi non appartiene il presente assoluto, quello che conferisce il carattere definitivo agli eventi e alle cose, che è – in fondo – il marchio della verità eterna. A noi tocca questa misericordia dell’eternità che è il tempo, che mai possediamo, ma che abitiamo e che ci induce a viverlo nella durevolezza del suo darsi, accettando la fatica della memoria, concentrandoci nella responsabilità del presente e guardando a quell’altro- ve che ci viene incontro e che non assomiglia mai all’oggi. Il futuro ci manca perché ci manca il coraggio di attendere l’avvenire, l’avvenire, appunto, che non significa rassegnazione passiva a ciò che sarà il domani, ma desiderio di andare incontro ad un nuovo inizio. Si ha paura del futuro – come il Censis recentemente ha messo in evidenza, elencando le cose che ci mancano – anche perché non riusciamo a fermare la corsa infinita dei ritmi del tempo, dandogli un fermo – un halt – uno stop nel duplice senso di fermata, ma anche di appoggio e di aggancio a ciò che vale di giusto e di buono. Ciò non significa certamente che l’accelerazione dei processi produttivi e vitali, che trasformano la nostra vita in un agitarsi senza direzione, possano essere cambiati con gesti di buona volontà, né è possibile scaricare queste patologie leggendole come costrutti sociali che determinano i nostri stati mentali. Sullo sfondo premono i grandi scenari epocali, che hanno condotto a differenti mutamenti di paradigma, come ci avvertono i sociologi, gli psicologi e gli storici, ma ciò non significa perdersi nella stanchezza e nella delusione di fronte alla durezza dell’esistente.


Occorre riprendersi il senso del tempo, l’esperienza cioè della sua durata, della sua completezza, misurata dal senso delle cose, dal valore delle relazioni, dal rispetto degli eventi che ci accadono

Oltre la scomparsa delle grandi narrazioni, rimane per il credente il ricco deposito di senso racchiuso nella Sacra Scrittura, là dove al di là dei metodi dell’esegesi, della speculazione, dell’ermeneutica, sta la certezza che nel tempo e in forme diverse ha preso corpo l’attesa di Dio, che parla ai singoli individui e ai suoi profeti. Per questo si deve at-tendere, nel senso che qualcosa ha da darsi e da compiersi, soltanto nel momento in cui l’uomo, ricordando i gesti di Dio, si muove con lui verso il compimento dei giorni, del giorno universale, in cui 'Il Signore sarà Uno e il suo nome sarà Uno' (Zc 14,9). Per questo l’attesa si fa indicibile e necessaria (Simone Weil), perché esposta al carico della memoria e, al contempo, alla fatica di un fu- turo ancora non totalmente prevedibile. L’attesa la si deve vivere, ed è questo l’altrove che il futuro promette, senza che ci si perda nelle trame fumose dell’immaginazione. Che si debba anche oggi fare ricorso all’utopia per credere ancora nel futuro? Che non significa perdersi nell’idolatria mitica e totalizzante delle utopie rivoluzionarie, così come non vuol dire arrendersi al facile pessimismo apocalittico, nutrito dalla contraddizione fra la nostalgia del potere forte e la spinta verso la realizzazione di valori indimostrabili ma anche irrinunciabili. Va in tal senso chiarito il senso originario dell’utopia, il cui senso -tradottosi nella narrazione del suo evolversi storico - significa non arrendersi alle cose così come sono, e lottare per le cose così come dovrebbero essere (C. Magris).


Si ha paura del futuro anche perché non riusciamo a fermare la corsa infinita dei ritmi del tempo, dandogli un fermo

Lo spirito del futuro dovrà così assumere una triplice forma: da un lato rafforzando la capacità di anticipazione progettuale, dall’altro sostenendo l’energia soggettiva tesa a contrastare la durezza del mondo così come è, e in ultimo attivando la tensione interpretativa, capace di entrare nel vivo delle contraddizioni nel tentativo di superarle. Guardare al futuro attraverso un’utopia ragionevole significa anche non farsi sopraffare dalla deludente chiusura del futuro, ben sapendo che il mondo ha bisogno di essere cambiato e riscattato. Il vero spirito dell’utopia, come insegna Ernst Bloch, suggerisce che dietro ogni realtà vi sono altre potenzialità, che vanno liberate dalla prigione dell’esistente. Detto altrimenti, occorre riscoprire che è lo stesso futuro a contenere una radicale giustificazione etica, dal momento che ogni finalità, ogni compito è qualcosa che deve avvenire, anche nella forma della presenza anticipata e sperata. Piuttosto che continuare ad essere dei turisti, in preda ad una smania incompiuta di attimi volti a catturare con gli occhi il mondo, si può pensare ad essere dei pellegrini che camminano coraggiosi verso una meta solo intravista e che affinano l’udito per ascoltare quei segnali che guardano al futuro, abbracciando il mondo e amandolo così come è, ma desiderandolo come dovrebbe essere.


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