giovedì 15 aprile 2021
Le analogie tra un discorso di monsignor Carlo Colombo del 1967 e le recenti considerazioni di Francesco
Si può constatare come la teologia, quando è 'buona', sia in grado di offrire un grande aiuto ai credenti e alla società

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A conclusione del discorso rivolto ai partecipanti all’incontro organizzato dall’Ufficio Catechistico nazionale della Cei, sabato 30 gennaio, papa Francesco ha invitato la Chiesa italiana a riprendere con prontezza e decisione il cammino nella direzione segnata dal Convegno della Chiesa italiana di Firenze nel 2015: «La Chiesa italiana – ha detto – deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi [...]. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare». Ricordiamo tutti il tema di Firenze – «Il nuovo umanesimo in Gesù Cristo» – e il discorso che papa Francesco tenne il 10 novembre. Un discorso che appare sempre più in sintonia con il cammino della Chiesa italiana, la quale, con il suo presidente cardinale Bassetti, ha da poco avviato l’iter per il percorso sinodale.

Viene in mente l’ampia e articolata relazione che il 4 aprile 1967, in un altro momento delicato come l’immediato post- Concilio, monsignor Carlo Colombo – del quale è recentemente ricorso ricorre il trentesimo anniversario della morte (Olginate, 13 aprile 1909 – Milano, 11 febbraio 1991) – tenne all’Assemblea generale della Cei sul tema «La cultura teologica del clero e del laicato». Tema e contesto sono diversi. Questo non impedisce però di vedere e, anzi, consente di valorizzare alcuni elementi di un’interessante e, per qualche aspetto, sorprendente continuità. Nella relazione del 1967, Colombo caratterizzò in questi termini la situazione religiosa in Italia: «Sappiamo tutti che il problema religioso fondamentale del nostro popolo è il problema della fede: di conservare, rinnovare, approfondire, e spesso semplicemente raggiungere una fede cristiana e cattolica convinta, capace di illuminare la vita» (in G. Colombo, Un’isola teologica, Milano 2004). Da teologo e da pastore – dal 1964 era vescovo ausiliare della diocesi di Milano – leggeva il problema anche in riferimento alle nuove generazioni: «Il bambino battezzato a mano a mano che diventa adulto si incontra oggi con un contesto sempre meno cristiano, e la sua fede incontra sempre maggiori difficoltà a mantenersi ferma e coerente, mentre la sua intelligenza e la sua anima si aprono sul mondo. [...] Ha bisogno di una luce maggiore, di un’assimilazione più personale, di una convinzione più profondamente radicata nell’intelligenza e nella volontà: di una maggiore cultura cristiana».


Nel trentesimo anniversario della morte del «teologo di Paolo VI», si evidenzia l’attualità dell’obiettivo di «organizzare razionalmente il divenire sociale e storico, per creare il regno degli uomini uguali sulla terra»

Indubbiamente molto vicino alla situazione attuale. Una sintonia che si nota ancora di più quando Carlo Colombo passa a precisare i «caratteri spirituali della nostra età» e li individua nella tensione verso un «nuovo umanesimo»: «Se vogliamo [...] riassumere in alcune linee fondamentali i caratteri spirituali della nostra età, per ricavarne gli impegni che ne derivano per un approfondimento della teologia, credo che li possiamo formulare a un dipresso in questo modo: gli uomini sono alla ricerca di un nuovo “umanesimo” ». Carlo Colombo, che aveva partecipato ai lavori del Concilio Vaticano II – dal 1960, su nomina di Giovanni XXIII, in qualità di membro della Commissione teologica preparatoria e, poi, nel prestigioso ruolo di consigliere teologico personale di Paolo VI –, precisa il senso che intende attribuire all’espressione “nuovo umanesimo”: «Una visione e un’organizzazione di tutta la realtà per la celebrazione dell’uomo, della sua felicità e della sua piena manifestazione».

Una bella sintesi, che appare singolarmente vicina ai «tratti dell’umanesimo cristiano» che papa Francesco ha presentato a Firenze: «Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio». Un umanesimo che, ha detto ancora Francesco, può essere «autentico » solo se contempla «l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale» e che, nel 1967, Carlo Colombo riteneva «nel medesimo tempo personale e comunitario: personale, perché tende a riconoscere a ogni uomo un valore proprio, uguale a quello degli altri; e comunitario (a differenza dell’umanesimo rinascimentale, individualista), perché accenna a un primato della comunità, cioè della moltitudine di persone uguali, rispetto all’individuo singolo». Un umanesimo che, ha sottolineato ancora papa Francesco, si deve riconoscere nell’«azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente» e, come disse monsignor Carlo Colombo alla Cei, deve essere «proteso a dominare la materia e a organizzare razionalmente il divenire sociale e storico, appunto per creare il regno dell’uomo, o meglio: il regno degli uomini uguali sulla terra».

La sintonia emerge anche nel riconoscere i rischi di un malinteso umanesimo. Papa Francesco li ha sintetizzato nella tentazione «pelagiana», che «porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte», e nella tentazione «gnostica », che invece «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale perde la tenerezza della carne del fratello». Carlo Colombo, quasi allo stesso modo, vedeva il rischio del nuovo umanesimo nella perdita dell’equilibrio tra dimensione storica e trascendente e nel dimenticare che l’esperienza umana è sempre contrassegnata dal peccato e dalla grazia: «Un umanesimo dimentico dei fini eterni e soprannaturali, e pure delle origini religiose della sua storia e delle condizioni religiose dello stesso sviluppo umano: dimentico del peccato e della grazia, che sono fattori permanenti, i fattori più profondi della vita dell’uomo sulla terra, e di ogni umanesimo».


«I caratteri spirituali della nostra età sono dati dalla ricerca di una visione e un’organizzazione della realtà per la celebrazione dell’uomo e della sua felicità»

Come valutare questa sorprendente continuità, a distanza di quasi cinquant’anni e in due momenti diversi ma ugualmente cruciali nella storia della Chiesa italiana? Almeno due le considerazioni che si possono ricavare. Anzitutto, una conferma del valore e della pertinenza della prospettiva del “nuovo umanesimo”. Una direzione che è stata individuata più volte e da interpreti di assoluto valore. Una direzione nella quale, perciò, sembra saggio camminare con sempre maggiore consapevolezza, determinazione e fiducia. Si può, inoltre, constatare come la teologia, quando è “buona”, sia in grado di offrire un grande aiuto alla Chiesa e alla società. Carlo Colombo, che dedicò gran parte della sua vita alla teologia – dal 1938 docente di teologia dogmatica presso la Pontificia Facoltà teologica di Milano ( Venegono Inferiore) fu dal 1967 al 1985 il primo preside della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (Milano) e, dal 1969 al 1974, membro della Commissione teologica internazionale –, ne conosceva bene valore e limiti. Non a caso, quando nel 1983 nel volume Il compito della teologia raccolse «una serie di riflessioni [...] approfondite lungo una vita intera », lo aprì con questo simpatico e coraggioso ricordo: «Un grande maestro, che è stato anche mio maestro, monsignor Carlo Figini [1883-1967], soleva terminare le sue lezioni di teologia ai discepoli prossimi al sacerdozio con queste parole: “La teologia non è altro che il buon senso applicato alla fede. Se un giorno trovaste che la teologia non è d’accordo col buon senso, dubitate della teologia, non dubitate mai del buon senso”».

Siamo certi che Carlo Colombo confidò questo ricordo non per sfiducia nella teologia ma per sottolineare come il teologo sia chiamato a un duplice e impegnativo compito: «Trasmettere la fede della Chiesa a tutti» e, allo stesso tempo, conoscere e comprendere «ogni vera indagine della ragione umana». Solo in questa costante tensione tra autenticità dell’umano e ricerca della verità cristiana i grandi “maestri” vedono la possibilità di un fecondo cammino della Chiesa italiana verso un “nuovo” e sempre più autentico “umanesimo”.


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