giovedì 5 gennaio 2017
Don Maurizio Patriciello racconta i sentimenti del suo ritorno per la prima volta ad Abbasanta, paese sardo dove la sua famiglia emigrò in cerca di lavoro quando era bambino. Un diario dei ricordi.
«Che commozione il ritorno alle mie origini»
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Avevo deciso di non tornarci più. Temevo che i ricordi che da sempre porto stampati in cuore, potessero essere smentiti. Non volevo rischiare. Erano il mio scrigno, il mio tesoro, il santuario nel quale nessuno è entrato mai. Abbasanta: un nome per me sacro. In quel piccolo centro in provincia di Oristano, papà si era stabilito, prima da solo, poi con la famiglia. In quel paese ho trascorso i primi cinque anni della mia vita. La mamma sul piroscafo che la portava a Cagliari salì a malincuore. La nostalgia della sua terra e dei familiari la divorava. Ad Abbasanta trovò dei cari vicini che vollero bene a lei e ai suoi bambini. A quelle persone, nei pochi anni che le rimasero da vivere, fu sempre riconoscente. La nostra casa confinava con quella di "Zia Efisia", una donna già anziana che fu per noi come una nonna. Ricordo benissimo quella vecchina affettuosa che dalla cassapanca tirava fuori qualche dolcetto da donarci. Nitida conservo l’immagine di "Zio Serafino", il marito, che, al ritorno dalla campagna, legava l’asino a un anello di ferro fuori casa. Ma, soprattutto, ho sempre ricordato Sandro, un adolescente, non vedente, amico dei miei fratelli più grandi.

Non avevo ancora 5 anni quando lasciammo la Sardegna per fare ritorno in Campania. Ad Abbasanta non ci sono più tornato. Zia Efisa e Zio Serafino erano morti. Sandro si era trasferito a Roma. Nessuno di noi ricordava il nome della strada dove papà ci portò perché non facessimo la fame. Era analfabeta, papà. Non dovette essere semplice per lui inventarsi un lavoro nel cuore della Sardegna. A fine 2016 sono stato a Cagliari per la marcia della pace. Una bella esperienza, più di 3.000 persone, per lo più giovani, hanno sfilato per le strade della città con tre vescovi, tanti sacerdoti e diversi sindaci. L’aereo che mi riporta a Napoli parte alle 16 del giorno dopo. Passo la mattinata con alcuni cari confratelli. «C’è qualche luogo che vorresti visitare?», mi chiedono. Il pensiero è uno solo. Tentenno. Come sempre temo di ritornare in quel paese che mi è caro. «Abbasanta. Possiamo andare ad Abbasanta?», mi ritrovo a ripondere.
Abbasanta dista da Cagliari più di un’ora d’auto. Il paesaggio è deserto ma stupendo, come tutta la Sardegna. Andiamo. Il cuore batte. Spalanco gli occhi per rivedere la strada che portò i miei genitori a trasferirsi in Sardegna per assciurarci il pane. Spero di ritrovare la casa che mi ha visto fanciullo. Come fare? Ricordo che abitavamo nei pressi del passaggio a livello. Lo troviamo. Poi? Chiediamo della famiglia di Sandro. Ce la indicano. Bussiamo. Mi presento. Sandro è là. Per le feste natalizie è ritornato dalle sorelle, Giovannina e Agnese. Vengo accolto con stupìta, squisita gentilezza. Mi abbracciano, li abbraccio. Chiedo. Interrogo. Le signore ricordano benissimo i miei genitori e i loro 5 figli. «Giovannina, la casa. Dove si trovava la mia casa?», chiedo emozionato come un bambino. «È quella, Maurizio, la casa dove abitavate voi».

La delusione è forte. Quella casa non corrisponde ai ricordi che mi porto dentro da una vita. «Giovannina, ma non c’era un ingresso grande dove papà entrava con il camioncino carico di merce, il muretto, il cortiletto, il capannone?». «Certo, Maurizio, è dall’ altro lato. La casa è ad angolo». Corro. L’emozione riprende a galoppare. E i ricordi di sempre trovano conferma. Si materializzano. Un incredibile tuffo nella mia prima infanzia. Tutto come prima. Mi sembra di sognare. Il tempo si è fermato. La vecchia casa che mi ha visto bambino in terra sarda è rimasta identica. È chiusa, ma il muretto basso mi permette di guardare dentro. Vedo la vite, il cortile dove giocavamo. E alla fine del muretto, ecco la casa di Zia Efisia. «Qua non c’era un sedile di pietra, Giovannina?». «Sì, fu tolto pochi anni fa». «Ma vieni, Maurizio, guarda». L’anello. Incredibile, l’anello di ferro dove Zio Serafino legava l’asino che amavamo è ancora là. Consumato, arrugginito. Lo guardo, lo accarezzo come si fa con una reliquia sacra. L’emozione è forte.

I nostri vecchi amici sono stati splendidi. Sento per loro una gratitudine immensa. Hanno reso meno dolorosa la permanenza alla mamma in terra sarda. Si fecero prossimo dei miei genitori alleviando la loro solitudine. Ci aiutarono ad ambientarci. Ci vollero bene. «Maurizio, tu eri il piccolo, vero?». «Sì, Giovannina, io sono l’ultimo dei figli». «Ma la signora Antonietta il più piccolo dei figli non lo chiamava Maurizio, ma Miziotto». «Miziotto sono io. È il vezzeggiativo con cui venivo chiamato in casa». Il mio debito di amore per la Sardegna continua. Ad Abbasanta ci voglio ritornare. E celebrare Messa.

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