Certezza della pena e giusta umanità Idee oltre gli slogan
domenica 17 giugno 2018

Certezza della pena. È uno degli slogan principali del programma annunciato dal neoministro della giustizia, Alfonso Bonafede: coerentemente, del resto, con ciò che si legge nel famoso 'Contratto di governo' e che sul punto sembra trovare grande e trasversale rispondenza nell’opinione pubblica.

Se inteso e sviluppato soltanto per ciò che vuol dire letteralmente, quello slogan riflette del resto un’esigenza che dovrebbe essere indiscutibile. Nulla da obiettare, insomma, per chi sia in buona fede, se vi si deve leggere soltanto l’impegno a lottare contro incertezze e ambiguità che consentano, a chi ha commesso un reato, di farla del tutto franca, magari profittando di un’astuta gestione dei tempi processuali per guadagnare una prescrizione o schivando in altro modo le conseguenze di un’indiscutibile colpevolezza. È ovvio che ci si indigni per le tante impunità, specialmente se chi esce impunito da un processo lo è o lo diventa anche nel senso che la parola riceve nel dialetto romanesco, bollando il 'tipo' del più sfrontato tra i birbanti.

Altra cosa è, però, se quello slogan si traduce in un 'più carcere per tutti, o almeno per le categorie di delinquenti più visibili; e senza sconti'; e l’impressione è che sia proprio quello l’obiettivo, come dimostra anche lo 'stop' alla riforma penitenziaria lasciata incompiuta dal Governo precedente. Pure in questo senso – credo lo si debba riconoscere – il proposito trova larghissime adesioni in ogni settore dell’elettorato. Quante volte, e anche su bocche 'progressiste', è risuonata la frase, ancora più cruda, 'Dentro, e buttando via la chiave' (magari adattata a situazioni diverse a seconda del tipo di reato e di autore preso in considerazione)?

E qui la cosa si fa preoccupante per chi, come chi scrive, è in totale disaccordo con una versione dello slogan di puro incentivo alla repressione carceraria; né consola troppo sapersi in quella buona compagnia che annovera tra gli altri papa Francesco (e i suoi predecessori), il presidente della Corte costituzionale e la stragrande maggioranza dei criminologi italiani e stranieri e – ciò che più conta – quella di coloro che dentro e fuori delle nostre prigioni, chiamati a cooperare con la loro fatica di tutti i giorni all’esecuzione delle sanzioni penali, cercano di dare concretezza al precetto dell’articolo 27 della Costituzione, là dove individua come scopo essenziale della pena il recupero sociale del condannato.

Personalmente, mi è facile sostenere, anche sulla base di tali testimonianze, che la detenzione carceraria tradizionale deve rimanere una soluzione inevitabile (e peraltro non necessariamente irreversibile) soltanto nei casi estremi di crimini gravissimi e che essa comporta invece un costo umano e sociale intollerabile quando, com’è tuttora, si applichi a un numero di persone come quello dei reclusi nelle nostre patrie galere (attualmente, più di 50mila). E, sempre personalmente, non ho neppure bisogno, per convincermene, delle statistiche secondo le quali il tasso di recidiva si è palesato molto più alto tra coloro i quali abbiano scontato tutta la pena in una prigione tradizionale che tra le persone sottoposte a misure alternative o detenute in una struttura come quella di Bollate, dove viene loro lasciata ampia libertà di movimenti e di organizzazione della propria giornata, dovendo in cambio garantire compartecipazione lavorativa all’organizzazione della struttura.

Temo, per contro, che nessuna statistica riuscirà a trasmettere questa convinzione al cittadino qualunque, comprensibilmente indotto a indignarsi – anche senza 'aiutini' interessati – se a commettere uno stupro è un condannato in semilibertà (sebbene sia solo uno su cento ammessi alla stessa misura alternativa). Non può dunque non essere in salita lo sforzo di rendere credibile una giustizia che pur potrebbe essere anche più efficiente, oltreché più umana, se sempre meno repressiva e sempre più riparativa.

Si dovrebbe poter sperare che tale sforzo venisse agevolato da chi ha la maggiore responsabilità al riguardo, indotto non ad affossare le 'alternative' ma a potenziarne una gestione seria ed efficace rafforzandone le risorse di stimoli positivi alla risocializzazione, in particolare ampliando le occasioni di riparazione del danno alle vittime e di prestazione di lavori socialmente utili e irrobustendo i controlli autenticamente sostanziali e tempestivi sull’effettività dei progressi di ciascun condannato su quella strada. È amaro constatare invece che in questo come in altri campi (vedi immigrazione) l’aria pare purtroppo tirare in direzione opposta: quella dell’esasperare e cavalcare le paure.

Professore emerito di Diritto processuale penale Università di Torino

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