Ecco l'invito a far giocare i talenti della Chiesa italiana
venerdì 11 maggio 2018

Ieri Nomadelfia e Loppiano. In precedenza, Bozzolo e Barbiana. In mezzo, Molfetta. Per qualcuno, utopie non replicabili perché legate a doppio filo a una figura carismatica, a un fondatore, a un visionario o come preferite definire Mazzolari e Milani; ma ciò che hanno sognato Chiara Lubich e don Zeno (e Bello) vive ancora, ben oltre la fine della loro vicenda terrena; anzi, Loppiano si è moltiplicata per 24, valicando confini e oceani, approdando in terre inimmaginabili.

Papa Francesco prosegue nei suoi pellegrinaggi lampo, quasi dei blitz pastorali dal significato ben chiaro: queste esperienze sono una ricchezza e tutti devono esserne consapevoli. Tra loro sono molto diverse, come decisamente diversi sono i protagonisti. Ma questo è perfettamente coerente con quanto Francesco predica da cinque anni: evviva la diversità che canta in coro, da non confondere con l’uniformità che ne è l’opposto.

Sono esperienze che al Papa piacciono. E, udite udite, sono esperienze molto italiane, nate dall'esperienza, dalla spiritualità, dal cuore della comunità ecclesiale italiana. Assieme al vasto reticolo delle parrocchie – più o meno brillanti e aperte, ma intanto resistono – costruiscono le due colonne vertebrali della Chiesa italiana. Entrambe la fanno stare in piedi. E sono tutta roba nostra, una ricchezza italiana. E qui sta il curioso paradosso. I profeti di sventura amano piangersi addosso, versando copiose lacrime: la Chiesa italiana è spenta, il Papa stesso non perde occasione di tirarle le orecchie; dove sono i vescovi santi di un tempo, dove i laici di forte personalità capaci di essere protagonisti della vita civile, oltre che ecclesiale? La stessa spinta propulsiva dei movimenti pare appannata; eccetera. Non che non ci sia del vero. Ma tra i profeti di sventura, presenti in ogni epoca, che annunciano l’imminente estinzione della fede, e tra gli ottimisti a oltranza incapaci di riconoscere le criticità, dovrebbe trovare spazio il buon senso di chi cerca di guardare la realtà della Chiesa italiana a 360 gradi, e in profondità.

È quello che sembra fare Francesco. L’Italia è disseminata di una miriade di esperienze spirituali, comunità, istituti di varia natura, centri culturali, luoghi educativi (basti pensare ai 'semplici' oratori, la cui esistenza diamo per scontata ma che, presi uno per uno, sono dei piccoli grandi prodigi di volontariato, organizzazione e sapienza educativa). Monaci, comunità, luoghi di preghiera e di studio: ne siamo accerchiati, quasi assuefatti a tal punto da non saperli vedere più. I media di grande diffusione li ignorano, per forza: la Chiesa deve far notizia per i casi, gravissimi ma oggettivamente isolati, in cui scoppia uno scandalo. Per il resto rimangono ciechi e muti.

Anche ieri a Loppiano, a meno che non fossero in incognito, gli inviati dei giornaloni e le grandi firme erano assenti. Davvero sbalorditiva l’incapacità di porsi una semplice domanda: da dove arriva tutta questa gente, che cos’avrà mai di straordinario una proposta capace di coinvolgere uomini e donne, giovani e adulti di 65 paesi di tutto il mondo, e che il Papa ieri mattina sottolineava? Zero. Papa Francesco avrebbe dunque in uggia a tal punto la Chiesa italiana da fare lui quel che altri non riescono o non possono: additarle la sua immensa ricchezza, invitarla a fare memoria e a valorizzare i suoi talenti, anziché diffidarne relegandoli ai margini. Da appassionato di calcio, è come se ci dicesse: mettete in campo i vostri numeri 7, non abbiatene timore, non fateli appassire in panchina.

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