venerdì 19 gennaio 2018
Stupro pagato o lavoro? Il dubbio che divide le donne. Un libro ripropone con forza la questione dell’abuso che si cela in ogni mercificazione del corpo
Sulla prostituzione il cortocircuito della cultura femminista
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«Voglio vedere molte altre donne strappare la verità dalle loro viscere su ciò che la prostituzione gli ha fatto e su ciò che continuerà a causare alle altre donne e ragazze, finché il mondo non prenderà coscienza della pura e semplice immoralità di tutto questo». Rachel Moran oggi ha 42 anni. Ne aveva appena 15 quando, dopo un’infanzia segnata dalla povertà e dal disagio mentale dei genitori, iniziò a vendersi per strada nella sua città, Dublino. L’esperienza devastante della prostituzione è durata 7 anni, fino al 1998, poi Rachel riuscì a venirne fuori, si rimise a studiare, e ora è giornalista e dal 2011 attivista femminista anti prostituzione.

La sua vicenda è raccontata in un libro crudissimo, di forte denuncia, che non risparmia nulla al lettore. Fin dal titolo: 'Stupro a pagamento: la verità sulla prostituzione' (Round Robin, pagg. 384, euro 16). Pagina dopo pagina Rachel descrive le umiliazioni subite dai clienti, la lenta devastazione della sua personalità, il sentirsi uccidere interiormente a ogni rapporto, ed espone la sua teoria sulla prostituzione: non si può tollerare la compravendita del corpo femminile, perché alla base dello scambio sesso-denaro c’è una relazione diseguale. La prostituzione è sempre «abuso sessuale pagato», così come è insita in essa la distruzione della personalità della donna, disumanizzata e ridotta a cosa. E questo riguarda tutte coloro che vendono il proprio corpo, anche chi si trova, per così dire, negli scalini più alti della scala gerarchica e anche chi è convinta di esercitare una 'professione' per libera scelta: la 'squillo', la 'escort', la 'prostituta d’alto bordo'... sono vittime di una «mistificazione che fa comodo agli uomini che pagano per fare sesso», scrive Moran. L’umiliazione subita ogni giorno è uguale per tutte e in tutti i segmenti di mercato.

Moran in questi mesi sta girando l’Europa per presentare il suo libro e l’associazione che ha creato nel 2012, Space International che lotta perché la prostituzione sia riconosciuta come «sfruttamento sessuale radicato nell’abuso» e, di conseguenza, per la criminalizzazione della richiesta di rapporto sessuale a pagamento, cioè dei clienti. Space international (Survivors of Prostitution Abuse Calling for Enlightenment - Sopravvissuti agli abusi sessuali che chiedono una via di uscita dalla loro condizione) ha sede in Irlanda, dove è nata, e sportelli negli Stati Uniti, in Francia, Danimarca, Germania, Canada, Sud Africa, Australia e Regno Unito. Le attiviste difendono il modello nordico 'proibizionista' che dalla Svezia, dove è stato introdotto nel 1999, si è diffuso in Norvegia (nel 2009), in Islanda (2009) ed è attualmente in discussione in Irlanda, Israele, Gran Bretagna, Finlandia e Francia.

Dopo aver letto 'Stupro a pagamento' nessuno potrà più dire a cuor leggero che quello sessuale è un lavoro come tutti gli altri e che prostituirsi può anche essere una scelta. Perché anche se lo fosse – e nel «mercato» attuale lo è in una percentuale irrilevante – come documenta Moran nel suo libro, non c’è prostituzione senza abuso. In quale lavoro l’abuso sessuale fa parte del contratto? L’espressione asettica inglese sex work, usata soprattutto nelle agende politiche di chi sposa il modello della regolamentazione della prostituzione «alla tedesca», nasconde ciò di cui si tratta veramente: mercificazione del corpo femminile.

Per quanto riguarda l’Italia, l’elaborazione del pensiero femminile e femminista sulla prostituzione è debolissimo, e forse anche per questo il dibattito politico, come si è visto in questi primi giorni di campagna elettorale, è incapace di andare oltre la promessa di riapertura delle case chiuse, mentre diversi sindaci, da Rimini a Firenze, fino a Ferentino, emanano ordinanze – anche se talvolta pasticciate – per punire i clienti. Una parte consistente del mondo femminista, pur di rimanere fedele allo slogan «Il corpo è mio e lo gestisco io», sembra essere incapace di cogliere quanta ingiustizia, discriminazione, sopraffazione e sfruttamento ai danni delle donne ci sia nella prostituzione, oggi come ieri. O perfino di più. La 'geografia' della prostituzione in pochi decenni è profondamente cambiata: ora sulle strade ci sono le giovanissime, prima dell’Est Europa, poi africane. Tra le 50 e le 70mila ragazzine, secondo la Caritas, quasi tutte minorenni e quasi tutte schiavizzate. Difficile parlare di scelta, come ha scritto mercoledì 17 gennaio su queste stesse pagine don Aldo Buonaiuto della Comunità Papa Giovanni XXIII. Di fronte alle proposte di riaprire le case chiuse, si chiedeva don Aldo, «dove sono le donne per le donne?».

Coincidenza, sabato 20 gennaio la Casa internazionale delle donne di Roma ospita un incontro dal titolo 'Sex work is work' (senza nemmeno un punto interrogativo, a seminare qualche dubbio), a cura del collettivo Spazioincontro, con l’obiettivo di «interrogare i femminismi sulla reale capacità di inclusione verso tutte le differenze che li attraversano e verso realtà sociali e umane che necessitano di un riconoscimento». Tra gli interventi previsti c’è quello di Pia Covre, che nel 1982 insieme a Carla Corso fondò il Comitato per i diritti civili delle prostitute e ancora si spende, a 70 anni, per l’abolizione della legge Merlin e la riapertura delle case chiuse. Covre sarà accompagnata dalle «sex workers» di Ombre Rosse, che nell’ottobre scorso contestarono duramente, sempre alla Casa internazionale delle donne, la posizione di Rachel Moran, invitata a presentare 'Stupro a pagamento'.

La linea di Spazioincontro è condivisa da un’altra grande realtà emergente del mondo femminista, il movimento 'Non una di meno', che nei mesi scorsi ha elaborato un corposo Piano «contro la violenza maschile sulle donne». Il documento contiene una enorme contraddizione: da una parte una giusta preoccupazione per le vittime della tratta delle donne, dall’altra la rivendicazione del diritto delle «sex workers» di ottenere «strumenti di informazione, di prevenzione e di cura che sappiano tutelarne l’autodeterminazione e la libertà di scelta». Lo sfruttamento del corpo femminile, insomma, per le donne di 'Non una di meno' non è un male in sé, anzi può diventare un’espressione di libertà. (Quale libertà, se a essere messa in vendita è la propria personale, intima dignità di donna?).

Uno scenario che non ha nulla di progressista e che oggettivamente è fonte di imbarazzo nel mondo femminista. Laura Piretti, una delle due neosegretarie dell’Unione donne italiane, la più gloriosa e storica tra le sigle femministe italiane, ad 'Avvenire' spiega che «l’Udi non potrebbe mai accettare la definizione di sex workers ». Detto questo però, nessuna presa di posizione unitaria contro la prostituzione. «Abbiamo bisogno di parlarne più a fondo», ammette Piretti. Ancora più difficile la posizione di una cooperativa sociale impegnata nella lotta alla tratta delle donne come Be Free, che aderisce alla Casa Internazionale delle donne, all’Udi e a 'Non una di meno': come si concilia l’idea che «sex work is work» con l’assistenza, tutti i giorni, a decine di ragazze schiavizzate dai 'papponi' e usate dai clienti per un corrispettivo di 7 o 10 euro a rapporto? Non si concilia, appunto, tanto che la stessa Oria Gargano, responsabile di Be Free, che collabora anche con 'Slaves no more' (Mai più schiave) della missionaria della Consolata Eugenia Bonetti, ammette: «Sulla prostituzione c’è una serie di sfumature; abbiamo evitato di affrontare il tema in profondità perché il movimento rischia di spezzarsi».

In questo arcipelago di sigle e di posizioni, ma in fondo anche di reticenze, è nettissima la posizione di Arcilesbica: il «sex work» è prostituente. Senza se e senza ma, così come è di «cattivo gusto» organizzare un incontro per celebrare la prostituzione alla Casa delle donne proprio nella sala dedicata a Carla Lonzi, fiorentina, scomparsa nel 1982, una delle colonne del movimento femminista, che scrisse questa frase divenuta celebre: «Il femminismo mi si è presentato come lo sbocco tra le alternative simboliche della condizione femminile, la prostituzione e la clausura: riuscire a vivere senza vendere il proprio corpo e senza rinunciarvi». Arcilesbica ha avuto il coraggio di dirlo chiaramente, e gliene va dato merito. In fondo la battaglia contro la prostituzione ha la stessa matrice di quella contro l’utero in affitto. In nome della dignità della donna, contro ogni sfruttamento.

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