Caro Daniele, che la tua morte non sia vana e il gioco resti gioco
sabato 29 dicembre 2018

In questi ultimi giorni di dicembre il mio pensiero corre a te, Daniele, e ai tuoi bambini. Alla tua morte, alla sofferenza che accompagnerà la loro vita; ai problemi che dovranno affrontare senza averti accanto. Quante volte t’invocheranno e non ti troveranno? Alle polemiche, alle responsabilità, agli errori commessi ci penseranno gli altri, il mio pensiero corre a te che hai dovuto dire addio alla vita. Ho letto, di te, dell’incidente, dei cori razzisti, della violenza che si è scatenata. In genere non mi appassiono troppo alle partite di calcio. Me lo sono imposto, lo farei volentieri se fossero davvero un gioco; un gioco che diverte adulti e bambini. Un gioco che migliora e affratella gli uomini, un gioco dove circolano meno soldi.

Non seguo il calcio, ma cambio volentieri il programma degli incontri in chiesa per permettere ai fedeli di gustarsi in santa pace una partita. Il gioco dovrebbe dire gratuità, creare fraternità, permettere alle menti tante volte stanche e scoraggiate di ritrovare la forza smarrita. Anche Dio giocava quando creava il mondo. Ma, credimi, proprio non riesco a capire che c’entri una partita di calcio con spranghe, catene, martelli. Perché portarsi allo stadio questi arnesi? Per difendersi? Per attaccare? Quale godimento si può ricavare dal far male a un uomo che nemmeno conosci? Al di là delle responsabilità che devono essere punite con esemplare severità, prepotente ritorna la domanda, mai risolta, del problema del male. Un mistero dal quale non possiamo distrarre l’attenzione.

Desideriamo il bene, siamo fatti per costruire il bene, riusciamo ad amare parenti e amici, ma dobbiamo amaramente ammettere che fare male a qualcuno che consideriamo un nemico, può provocare in noi un piacere anomalo. Ma perché? Perché una partita di calcio nei giorni di Natale, in un Paese impregnato dal messaggio cristiano, si trasforma in una sorta di guerra? La risposta va cercata in quel guazzabuglio che è il cuore dell’uomo, capace di amare e di odiare; di coccolare, accudire e di ammazzare. Il problema, naturalmente, sta prima della partita. L’odio che si sviluppa durante un incontro di calcio ha radici altrove. Lo si è accolto e giustificato prima. Gli si è dato un diritto di cittadinanza che non gli competeva. L’odio è una pianticella che può far capolino in tutti, ma che occorre estirpare subito, prima che affondi le radici e diventi un albero. Si può anche convivere con l’odio, a patto che venga rivolto contro le ingiustizie, le povertà, le guerre; mai contro l’uomo, chiunque esso sia. L’odio deve metterci le ali ai piedi per farci correre dai bambini che soffrono, dai malati che non vengono curati, nei luoghi dove il creato viene razziato. Dobbiamo odiare con tutte le nostre forze il male che si insidia dentro di noi, non permettergli di attecchire, dichiarargli una guerra senza quartiere. E convincerci, una volta per sempre, che la vera gioia si trova solo nel donare gioia, nell’arte della convivenza, della solidarietà, del servizio, dell’onestà.

Te ne sei andato, fratello Daniele, in modo atroce e stupido. Hai detto addio all’avventura stupenda della vita. L’unica che ti era stata data in dono. E noi vogliamo pregare per te, per la tua anima, per i tuoi bambini, la tua famiglia. I tuoi “amici” ti hanno abbandonato in ospedale e sono scappati via. Ognuno ha pensato a se stesso, a non avere guai con la giustizia, a cercare di farla franca. Sono convinto che prima di perdere coscienza, in un baleno, la vita ti è passata davanti mentre si allontanava per sempre da te. E tu l’hai fissata negli occhi. Era bella, ancora più bella delle altre volte, mentre, piangendo, ti abbandonava.

Addio, fratello. Che la tua morte e il dolore di chi ti ha voluto bene non siano vani. Che, anche pensando a te, gli uomini imparino a convivere senza sentire il bisogno di farsi inutilmente male; che sappiano divertirsi, scherzare, ridere, stringendosi la mano. E sappiano ripetersi l’un l’altro che, in fondo, in qualsiasi rete quel pallone vada, nulla di ciò che conta, cambia. È un gioco, appunto, e come tale va trattato. È proprio vero, l’uomo, per quanto lo si studia e lo si indaghi, rimane un mistero a se stesso. Credo che il gioco del calcio ce lo confermi.

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