mercoledì 24 agosto 2011
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Muoiono alla spicciolata, uno in una città, l’altro nell’altra. Non fanno notizia, se non nel quartiere. Fuori di lì, nessuno viene a conoscerli. In una parrocchia, il prete conosce tutti, ma il sindaco no. Sono i vecchi che muoiono d’agosto. Si dice: perché fa caldo, hanno meno difese. Ma non è questo che fa notizia. Fa sensazione la morte dei vecchi che muoiono soli, e vengono scoperti molti giorni dopo, quando i vicini s’insospettiscono. Anche ieri a Milano sono morti, in quest’orrido modo, abbandonati e dimenticati, in due. La loro morte dice molto sulla loro vita e sulla nostra società. Perciò ne parliamo. Quando succede qualche grande terremoto, che abbatte file di case, c’è sempre un’incognita sulla conta dei morti: i morti denunciati dalle famiglie sono tot, ma il sospetto è che i morti reali siano di più, perché ogni città ha il suo numero di vecchietti che vivono soli, e se muoiono nessuno se n’accorge. È questo il problema.Quando la cronaca ci mette davanti agli occhi il problema della solitudine dei vecchi nelle città, mi torna sempre alla mente un libro che racconta, come meglio non si potrebbe, questo problema visto dall’ottica marxista. È un vecchio libro, ma ha fatto scuola. Lo ha scritto la compagna di Sartre, Simone De Beauvoir, e il titolo dice tutto: Una morte dolcissima. Simone racconta la fine di sua madre, e con quel titolo consola se stessa e la sua sorella. Vuol dire: «Nostra madre è morta dolcissimamente, potessimo noi figlie, e tutti noi umani, morire così!». Una morte invidiabile. E com’è, materialisticamente parlando, questa morte dolcissima e invidiabile? Eccola: la madre, anziana, vien munita di tutto quel che le serve, una casetta solo per lei, con dentro tutto l’occorrente, separata ma non lontanissima dalle figlie, c’è perfino il telefono, che data l’epoca è quello a muro. Ogni tanto le figlie andavano a trovarla, controllavano che la pulizia fosse stata fatta, che il frigo fosse pieno. E se ne andavano. La madre ebbe un ictus. Voleva chiamare aiuto, avvertire le figlie, s’è trascinata fino al telefono, ma il telefono era in alto, lei poveretta non riusciva ad arrivarci, è morta lì sul pavimento ed è stata scoperta con qualche giorno di ritardo. È la morte-incubo che tutti i vecchi temono: cadere e non riuscire a chiamare aiuto. Se questa è una «morte dolcissima», qual è una morte atroce? La morte dolce è quella in cui chi ama ti sta vicino, se cadi ti risolleva e chiama il medico, ma una simile morte dolce può seguire soltanto a una vita dolce: una vita in cui coloro che ami e che ti amano non ti lasciano solo. Il problema di questi vecchi, che quando muoiono vengono scoperti con ritardo, non è la malattia (tutti i vecchi hanno qualche malanno), non è la povertà, ma è la solitudine. L’abbandono. La separazione dall’umanità. Le associazioni volontarie fanno più di quel che possono, ma l’aiuto delle amministrazioni scarseggia oggi più di ieri.Ogni anno, in agosto, di fronte a questo stillicidio di cronache allarmanti nei giorni della grande afa, ogni città promette rimedi: bisogna che i vecchi in solitudine vengano visitati più spesso, che ricevano i pasti a casa, che possano andare al cinema gratis, insomma che vengano aiutati a vivere, perché da soli non ce la fanno. Loro lo fanno capire, che non ce la fanno. Quando telefonano al Pronto Soccorso per chiedere notizie sull’afa, in realtà chiedono aiuto. Ma non bisognerebbe prendere notizia dei vecchi quando chiamano, dovrebbero già essere registrati. Non è un problema di agosto. In agosto il problema scoppia, ma dura sempre. È un problema permanente. Il problema dei vecchi che muoiono con l’afa rientra nel problema dei vecchi che vivono soli. Anche se, come la madre di Simone, hanno tutto ciò che serve al corpo, è la parte di loro che non è corpo che si lamenta. Tutto l’anno.
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